by MAURIZIO RICCI, la Republica | 18 Aprile 2016 13:15
L’impresa, diceva, nella mattinata di ieri, uno dei ministri presenti al vertice di Doha, “è trovare un accordo che, contemporaneamente, tenga fuori l’Iran, faccia contenti i sauditi e non crei problemi ai russi”. “Difficile”, aggiungeva. Infatti, non ci sono riusciti. Il vertice di Doha, atteso da mesi, nella speranza che i grandi produttori riuscissero a trovare un accordo per fermare la produzione mondiale e ridare fiato ai prezzi, è clamorosamente fallito, dopo un’intera giornata di trattative sempre più affannose e sempre più velleitarie, inchiodate all’ennesimo capitolo dello scontro Riad-Teheran. La conferma viene dal fatto che tutto quello che i ministri sono riusciti a dire, abbandonando il meeting, è che cercheranno di trovare una posizione comune dentro l’Opec, alla riunione dell’Organizzazione a giugno e, solo dopo, cioè fra oltre due mesi, si tenterà di estendere l’accordo agli altri maggiori produttori, come la Russia.
A far saltare l’accordo è stato il veto saudita ad un congelamento della produzione che non coinvolgesse anche il nemico storico di Riad, cioè l’Iran. Da questo punto di vista, gli scettici avevano già indicato che il vertice non avrebbe potuto dare risultati significativi, perché l’Iran aveva già ripetutamente segnalato di non avere nessuna intenzione di contenere la propria produzione. Posizione prevedibile, perché Teheran è appena uscita dal lungo tunnel delle sanzioni e intende recuperare le quote di mercato perse in questi anni. In numeri, si tratta più o meno di un milione di barili. I sauditi non hanno nessuna intenzione di fermare la loro produzione per ridare all’Iran lo spazio per espandersi. E gli iraniani non hanno nessuna intenzione di continuare a tirare la cinghia, rinunciando agli incassi di un milione di barili al giorno, come se le sanzioni fossero ancora in vigore. Infatti, fra i 16 ministri presenti ieri a Doha, l’iraniano non c’era.
Era già questo un pessimo segnale per il vertice. A lungo, tuttavia, durante la giornata, si è pensato di poter arrivare comunque ad un accordo generico. Era la prima volta dal 2001 che i paesi dell’Opec si riunivano con altri grandi produttori per discutere di una possibile regia della produzione mondiale. Un testo comune avrebbe almeno mandato il segnale che i lavori per un coordinamento dell’offerta di greggio, con l’obiettivo di riequilibrare offerta e domanda e rianimare i prezzi, erano comunque in corso. Adesso che anche questa prospettiva è svanita, non solo nell’immediato, ma anche dall’agenda almeno dei prossimi due mesi, il contraccolpo sui mercati, oggi, sarà probabilmente pesante. Chi, nelle scorse settimane, ha accumulato posizioni al rialzo dei prezzi del barile, nella convinzione che un accordo, sia pure vago, sarebbe uscito da Doha, tenterà affannosamente di liberarsene, con conseguenze pesanti sui prezzi. Nei giorni scorsi, gli analisti più pessimisti delle banche di investimento americane pronosticavano che un mancato accordo poteva far precipitare, almeno nell’immediato, i prezzi dagli attuali 40 dollari a barile anche sotto i 30 dollari.
Con operatori sotto costante pressione come quelli che agiscono sui mercati del petrolio, una reazione psicologica pesante non può essere esclusa. Anche se agli analisti più lucidi non era sfuggito, nei giorni scorsi che, sotto il vestito politico dell’accordo abbozzato per Doha, comunque, c’era molto poco. Il problema che il vertice avrebbe dovuto affrontare, infatti, è l’eccesso di produzione del greggio, di 1-2 milioni di barili al giorno, rispetto alla domanda. Lo squilibrio è la causa del crollo dei prezzi ad un terzo dei livelli di fine 2014. Per rilanciare le quotazioni del barile bisogna, dunque, tagliare la produzione. Invece, l’obiettivo massimo del vertice di ieri era solo di congelarla. Visto che i livelli attuali di estrazione, in Arabia saudita, in Russia e negli altri paesi sono, da gennaio, ai massimi storici, il congelamento sarebbe stato in ogni caso privo di effetti concreti, superata l’euforia iniziale, sui mercati.
Il mondo del petrolio è, infatti, chiuso in una sorta di circolo vizioso. Accordo di Doha o no, infatti, gli esperti prevedono che, nella seconda metà dell’anno, la produzione americana di greggio dovrebbe scendere di circa 700 mila barili al giorno, in seguito alla bancarotta di molti petrolieri che non reggono i prezzi attuali. Questo dovrebbe alleggerire l’eccesso di petrolio sul mercato. Ma, contemporaneamente, dovrebbero arrivare, sullo stesso mercato, i 700 mila barili che l’Iran ha già annunciato di voler produrre in più, per recuperare i livelli pre-sanzioni. Dunque, lo squilibrio rischia di restare quello di oggi, prolungando la pressione sui prezzi.
Ma, se la pressione si alleggerisse, la situazione per i petrolieri non migliorerebbe. Prezzi più alti significano che i petrolieri americani sull’orlo della bancarotta potrebbero riprendere a produrre a pieno ritmo. La soglia, secondo i calcoli delle banche di investimento, è a 55 dollari al barile. A quel livello, riprenderebbero a inondare il mondo di petrolio.
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