by CARLO BONINI, la Repubblica | 22 Aprile 2016 9:41
Sei diverse fonti di Polizia e Intelligence del Cairo convincono la prestigiosa agenzia di stampa inglese Reuters a ritornare sul sequestro e la morte di Giulio Regeni per concludere che si è trattato di un omicidio di Stato. Perché Giulio venne fermato la sera del 25 gennaio dalla Polizia egiziana durante uno dei tanti rastrellamenti nella zona di piazza Tahrir per poi essere consegnato agli interrogatori e alle torture della Sicurezza Nazionale, il tentacolare Servizio segreto Interno.
Le sei fonti, cui la Reuters garantisce l’anonimato per proteggerle dal regime, ricostruiscono una catena di eventi logicamente compatibile con le poche e lacunose risultanze investigative di due mesi e mezzo di indagini. E il loro racconto, nella sostanza, lì dove cioè accredita che Giulio venne fermato dalla Polizia per poi essere “ceduto” ai Servizi, torna a sovrapporsi al cuore della testimonianza in chiaro postata su Facebook il 6 febbraio scorso dall’ex generale dissidente Omar Afifi, al contenuto delle mail anonime ricevute da Repubblica tra la fine di marzo e i primi giorni di aprile, alla ricostruzione che la stessa Repubblica ha fornito nelle settimane scorse sul luogo della scomparsa di Giulio — la zona di piazza Tahrir, per l’appunto — e sull’identità dei suoi sequestratori, squadre della Polizia egiziana che, quella sera del 25, erano sotto il comando del generale ed ex torturatore Khaled Shalaby.
Nel dettaglio, le fonti della Reuters riferiscono che Giulio venne prelevato la sera del quinto anniversario della Rivoluzione da uomini della Polizia egiziana durante un rastrellamento in una zona vicina alla fermata del metro “Gamal Abdel Nasser”, un chilometro in linea d’aria, 15 minuti a piedi, dall’altra fermata del metro “Sadat” di piazza Tahrir dove, ne sono convinti i nostri investigatori, proveniente da Dokki, Giulio arriva intorno alle 20 del 25 gennaio per raggiungere l’amico Gennaro che lo aspetta in un bar non lontano. Con Giulio — aggiunge la Reuters — viene fermato un non meglio identificato cittadino egiziano ed entrambi vengono caricati su un «minivan bianco con targa della Polizia » che li depositerà nella caserma di Izbakiya, dove un ufficiale di polizia riferisce all’agenzia di stampa inglese di ricordare il trasferimento di “un italiano” e da dove, dopo appena trenta minuti, saranno trasferiti nel famigerato compound di Lazoughli, uno dei buchi neri in cui la Sicurezza Nazionale normalmente seppellisce oppositori e “sospetti” destinati a non rivedere più la luce.
Naturalmente, la ricostruzione della Reuters è stata immediatamente smentita dal portavoce del Ministero dell’Interno egiziano, così come da fonti della Sicurezza Nazionale (citate dalla stessa agenzia) che sono tornate ad escludere qualsiasi coinvolgimento di Polizia e Intelligence sostenendo che l’unico contatto di Giulio con gli apparati della sicurezza egiziana sia stata la stampigliatura del visto sul passaporto al momento del suo ingresso al Cairo.
Smentite che equivalgono ormai da due mesi a vuote petizioni di principio perché sempre lontane da qualsiasi fatto o circostanza obiettiva. E a cui non solo non crede il nostro Paese, ma, ora, ufficialmente respinte anche dagli Stati Uniti in occasione dei recenti incontri avuti al Cairo dal Segretario di Stato John Kerry con i vertici del governo e della Presidenza egiziana. «Abbiamo ribadito — ha spiegato il portavoce del Dipartimento di Stato John Kirby — che i dettagli che sono venuti alla luce dopo la morte di Giulio Regeni hanno sollevato domande sulle circostanze stesse della morte che riteniamo possano essere risolte solo con un’indagine imparziale e completa».
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