Il plusvalore dei referendum nel quesito sulle trivelle

by Gaetano Azzariti, il manifesto | 12 Aprile 2016 9:31

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Domenica prossima non andremo a votare solo per chiedere l’abrogazione di una norma (quella che prevede l’estensione delle concessioni per le attività estrattive entro le 12 miglia nautiche). Saremo principalmente chiamati ad esprimerci sui nostri valori di fondo.

Ogni referendum abrogativo, in effetti, ha per sua natura una doppia dimensione: quella strettamente normativa e quella propriamente emblematica che ne esprime l’essenza prevalendo sempre sulla prima, incorporandola e dando senso alla specifica richiesta di abrogazione. Questo plusvalore dei referendum (valgono per ciò che dicono, ma anche per ciò che sottendono) è una costante, contrassegna ogni “appello al popolo”.

Si pensi in Italia ai referendum più noti, anche a quelli i cui quesiti erano diretti ed espliciti.

Il referendum sul divorzio, ad esempio, non può essere ridotto al pur importante quesito sull’istituto giuridico dello scioglimento del vincolo matrimoniale, esso ha segnato – soprattutto – un passaggio tra due modi di intendere i rapporti tra coniugi, ha affermato una diversa visione del mondo e dei rapporti tra le persone.

Quello sull’aborto non si è limitato a sancire il diritto all’interruzione della gravidanza, ma ha coinvolto il modo di pensare al corpo delle donne, il loro ruolo entro una società, ponendosi come terminale simbolico di una lunga lotta di emancipazione.

La scelta sul nucleare, poi, che ha riguardato disposizioni in sé marginali rispetto alle politiche energetiche (tant’è che nessuno ricorda più su quali quesiti siamo andati a votare), ha avuto un immediato e profondissimo riflesso sulle concrete scelte, sull’idea stessa di sviluppo economico, impedendo l’uso di una risorsa (il nucleare) in base ad una scelta – per una volta – non di mercato, bensì di valore.

L’ultimo referendum, quello sull’acqua, è forse stato il più esplicito nel collegare il voto alla visione del mondo che si poneva a suo fondamento. “Acqua-bene comune” era la formula prescelta dal comitato promotore, il quesito coinvolgeva non solo il servizio idrico, ma anche la questione più ampia dei servizi pubblici locali (una valenza generale che fu riconosciuta dalla Corte costituzionale in sede di ammissibilità dei quesiti). La prospettiva esplicitamente dichiarata era quella di esprimere un altro modello di sviluppo rispetto a quello di privatizzazione neoliberista dominante.

Né può dirsi che il plusvalore simbolico sia meno rilevante a secondo dei tipi – abrogativi od oppositivi – di referendum. Anche quello costituzionale del 2006 ha visto, in fondo, contrapporsi due mondi: da un lato chi pensava alla Costituzione come uno strumento di governo (del governo) per garantire la stabilità del potere, dall’altro chi riteneva all’opposto che le costituzioni servono per limitare i poteri e garantire i diritti dei cittadini nei confronti dei governanti. Un tema che sarà al fondo anche del prossimo scontro sulla riforma costituzionale.

Ogni volta che si è pensato si potesse limitare la portata del referendum al solo quesito si è commessa una ingenuità.

Il caso dei referendum elettorali del 1993 è esemplare in tal senso. La critica ai partiti, la volontà di cambiamento, la crisi delle strategie politiche di riforma sociale si posero alla base di un plebiscito che travolse non solo il sistema elettorale di natura proporzionale allora vigente, ma anche tutti gli equilibri politici, trasformando per intero la nostra democrazia reale.

Gli effetti di quella scelta non sono stati più assorbiti: la riduzione degli spazi della rappresentanza, l’isterilimento degli organi parlamentari, il deterioramento progressivo dei partiti come strumenti di partecipazione, la fine della mediazione politica e l’imporsi della immedesimazione leaderstica, non sono certamente il frutto di quella scelta (ben più profonde le cause del deperimento in corso), ma è vero che lì trovarono una loro fondamentale legittimazione popolare. Quanti sono oggi i pentiti del ’93? L’errore fu pensare al quesito e non anche al suo significato sistemico.

Ed è proprio sugli effetti di sistema che si gioca la partita dopo il referendum. Senza illusioni e con realismo bisogna anche dire che l’appello al popolo non è mai definitivo. Anche in questo caso basta guardare la storia che è alle nostre spalle per comprendere limiti e virtù dello strumento referendario.

Radicalmente diversi sono stati gli esiti nel caso del sistema elettorale e in quello dell’acqua-bene comune. Nel primo il cambiamento è andato ben al di là di quanto veniva richiesto, all’opposto nel secondo nulla è mutato. I referendum, in effetti, sono una prospettiva di cambiamento, non la sua realizzazione; un inizio, non la conclusione di una lotta per l’affermazione di una diversa visione del mondo. Saranno poi i soggetti reali, i rapporti di forza politici, le condizioni culturali a segnare il futuro e la portata del cambiamento.

Lo scontro reale, nel voto di domenica, non riguarderà tanto le concessioni alle imprese petrolifere, bensì coinvolgerà per intero le prospettive di sviluppo: devono queste continuare ad essere basate sulle fonti energetiche tradizionali, sul petrolio, ovvero è giunto il tempo di cambiare investendo nelle fonti alternative, recuperando il gap che vede il nostro paese tra gli ultimi nelle politiche energetiche non inquinanti. Entro questa più ampia visione cadono molte obiezioni che sono state sollevate: la questione della perdita del lavoro causato dalla fine delle concessioni (che non sarebbe comunque immediata), ad esempio, è chiaramente mal posta. Si dovrebbe più correttamente pensare alle possibili ricadute in termini di sviluppo: come riconvertire il nostro sistema energetico.

Si tratta evidentemente di politiche economiche da rilanciare, altre da abbandonare. Solo chi ritiene che esiste un’unica razionalità economica, un’unica ragione del mondo, può affermare che la chiusura protratta nel tempo delle piattaforme di perforazione in profondità per la ricerca di idrocarburi costituisca un serio problema per l’occupazione. Solo chi non ha interesse a rilanciare lo sviluppo su nuove basi più consone al rispetto dell’ambiente può pensare che è necessario continuare sino all’esaurimento dei giacimenti l’attività di estrazione, in eterno dunque. Solo chi non pensa di poter cambiare può essere preoccupato per i posti di lavoro che il settore petrolifero – compreso l’indotto – oggi garantisce, rinunciando così a fornire un diverso futuro a questi lavoratori che ben potrebbero costituire la base di una occupazione ecologicamente compatibile. Solo chi vuole mantenere le attuali storture può essere contro i referendum.

Lo scontro, dunque, è ancora una volta tra chi vuole preservare gli assetti di potere esistenti e chi crede in un altro mondo possibile.

In questa prospettiva deve essere valutata anche la portata in sé ridotta del quesito. Se l’effetto del referendum si limitasse ad escludere le proroghe delle concessioni estrattive entro le dodici miglia marine non avremmo fatto granché in tema di risanamento e sviluppo complessivo. Ma qui è appunto la sfida da raccogliere: questo non è che l’esordio di una lotta politica di civiltà, per tentare di risalire la china che ci ha portato all’attuale degrado ambientale, contro la miopia di un ceto politico, nuovo solo a parole, ma che continua a porre resistenza al cambiamento e non vuole progettare il futuro, riproponendo le stesse ricette al servizio dei soliti interessi.

Per cambiare non basta un solo giorno, né un solo quesito, c’è bisogno di una organizzazione sociale, di una cultura diffusa, di un ceto politico in grado di tradurre in politiche realmente innovative la volontà espressa dal corpo elettorale.

Per questo possiamo dire che il sì contro le trivelle «ce n’es qu’un début»: altri referendum sono già pronti, altre politiche devono essere immaginate.

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