Occupazione: mese dopo mese i dati smentiscono il governo

by Marta Fana, il manifesto | 2 Aprile 2016 17:58

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 Come già avvenuto altre volte, la riduzione del tasso di disoccupazione giovanile dipende dal numero minore di inattivi nella stessa fascia di età

Mese dopo mese la realtà si impone. Nel mese di febbraio rispetto a gennaio 2016, l’occupazione è calata di 97.000 unità, mentre si contano 58.000 inattivi in più. La lieve riduzione della disoccupazione giovanile è spiegata dal numero di giovani che nonostante tutto provano a cercare un lavoro, uscendo dalla condizione di inattivi.

In particolare, in un solo mese il numero di occupati dipendenti a tempo indeterminato è diminuito a tal punto da annullare il notevole aumento di gennaio (rispettivamente -92mila e 98mila), quando si registrava un’impennata occupazionale grazie al balzo positivo dei contratti stipulati a dicembre sostenuti dalla corsa agli ultimi sgravi del 2015. Diminuiscono per il quarto mese consecutivo anche i dipendenti a termine (-22mila rispetto a gennaio), mentre si arresta – almeno per il momento- la caduta dei lavoratori autonomi occupati (+17.000). Il calo dell’occupazione colpisce sia gli uomini (-57mila) sia le donne (-40mila), ma come già notato nei mesi precedenti, è la distribuzione per classi di età a mostrare i molti limiti delle politiche del lavoro.

Stando ai dati, infatti, nel mese di riferimento i lavoratori tra i 15 e i 49 anni diminuiscono di 113.000 unità, mentre continua l’aumento degli over 50 (+17mila). Come già avvenuto altre volte, la riduzione del tasso di disoccupazione giovanile dipende dal numero minore di inattivi nella stessa fascia di età. Giovani che cercano un primo impiego o sperano di trovarne uno nuovo dopo un periodo di non ricerca, per scoraggiamento, studio, o altro. Si danno da fare nonostante le condizioni non siano favorevoli, restituendo al mittente l’idea di una generazione pigra o schizzinosa. Il numero di inattivi aumenta invece tra i 25 e i 49 anni (+44.000 in un solo mese), la fascia di età ad oggi più colpita dalla dinamica occupazionale nell’era Renzi. All’ottimismo della volontà dei più giovani si affianca il pessimismo della ragione dei fratelli maggiori.

Una doccia fredda per il governo, che aveva puntato tutto su questa riforma, eretta a strumento indispensabile per la ripresa economica. Un esecutivo smentito dai dati, i quali mostrano che da gennaio scorso ad oggi la dinamica del mercato del lavoro ha risposto agli interessi economici degli imprenditori – a cui il governo ha messo a disposizione miliardi di euro pubblici, senza alcun vincolo – e non a una ritrovata dinamicità del sistema economico.

Ma soprattutto a prima vista, i fatti sembrano smentire ancora una volta anche l’idea per cui sono le rigidità del mercato del lavoro, cioè la presenza di tutele contro i licenziamenti, il ruolo dei sindacati, ecc.. la causa del corretto e virtuoso funzionamento dell’economia, lanciata in modo naturale verso sentieri di crescita. Si nota ad esempio che la variazione congiunturale dell’occupazione a febbraio 2015, rispetto a gennaio dello stesso anno, è stata positiva e quindi superiore a quella registrata dall’ultima rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istituto Nazionale di Statistica.

Senza dimenticare però che una parte di quell’aumento può essere attribuito a una dinamica complessiva, misurata dalla crescita del Pil, sopra la media dei mesi precedenti. La sostanza rimane, le ultime riforme del mercato del lavoro hanno smantellato diritti assecondando un’ideologia smentita dalla Storia, ma per camuffare i risultati negativi senza poterli comunque evitare, il governo ha giocato l’altra carta alla moda: il taglio delle tasse alle imprese. Peccato che le imprese non creano lavoro se non hanno domanda per i loro prodotti e almeno in Italia non hanno nessun incentivo a investire in innovazione, in nuovi processi e prodotti, scaricando quindi tutto il peso del fallimento di un modello di mercato sull’occupazione e sulle retribuzioni.

Una situazione non solo italiana come ci ricordano le manifestazioni che nelle ultime settimane si susseguono in Francia contro la proposta di legge Khomri, volta a flessibilizzare ulteriormente il mercato del lavoro, facilitando oltre ai licenziamenti, anche la decentralizzazioni delle decisioni su orario di lavoro e retribuzioni, soprattutto degli straordinari. Il terreno di scontro è comune e si estende a tutti i paesi europei, anche alla Germania dove il sistema dei mini-jobs è alla base dell’aumento dei lavoratori poveri e delle disuguaglianze sociali. Bisognerebbe allora cogliere l’occasione in ognuno di questi Paesi, come in Spagna, in Grecia e in Potogallo portando al cento delle rivendicazioni non solo la tutela del posto del lavoro, della sua continuità ma anche la questione salariale e del reddito, dai contratti dei metalmeccanici ai voucher, passando per quelli dei ricercatori, dei soci lavoratori di un sistema delle cooperative ormai stravolto e di quanti un lavoro non sono riusciti a trovarlo.

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