by Rossella Muroni *, il manifesto | 7 Aprile 2016 10:32
C’è un dato netto che emerge nella vicenda referendaria sulle trivelle. Siamo di fronte ad uno scontro tra due visioni opposte del sistema economico italiano. Un modello legato alla gloriosa idea di industrialismo accentrato, stile Mattei, tipico di un’epoca in cui il bene dell’Eni era il bene del Paese. L’altro che mette al centro le comunità locali e i territori.
Gli italiani hanno imparato a loro spese che il modello industriale oggi dominante ha portato con sé, insieme a sviluppo e posti di lavoro, anche impatti rilevanti sui territori e sulla salute dei cittadini. Basti pensare alla storia dell’Ilva di Taranto, alle raffinerie siciliane di Priolo e Gela ma anche alla produzione di amianto. Di fronte a questi fatti, al centro di provvedimenti giudiziari e di inchieste della magistratura, noi ambientalisti veniamo accusati di essere contro l’industria, ridicolizzati e messi alla gogna sotto l’etichetta dei “sognatori”.
Quanto di più sbagliato. Noi non vogliamo il ritorno all’età della pietra ma una classe politica e una classe industriale, possibilmente distinte e senza legami opachi, che abbiano la capacità e la visione per portarci fuori dall’era dei fossili. Il Paese è pronto, pronta è una parte importante degli imprenditori italiani, sono pronti i cittadini che hanno dimostrato in questi anni di saper cambiare il loro stile di vita. Mancano all’appello una politica che tentenna, sorda alle istanze territoriali, ignorante in campo ambientale ed una classe industriale vecchia, legata ad una visione arcaica, che in nome dei posti di lavoro generati pensa di aver diritto a nulla-osta fatti di leggi “ad aziendam” e ad un sistema di controlli vergognosamente deficitario.
Al centro del referendum del 17 aprile c’è proprio questo.
Noi di Legambiente chiediamo agli italiani di andare a votare SI perché riteniamo fondamentale bloccare l’ennesimo regalo fatto alle compagnie petrolifere. Dalle concessioni a vita per le piattaforme (e nessun controllo sullo smantellamento) introdotte nella legge di stabilità 2016 alle royalties irrisorie e deducibili dalle tasse. Dai costi minimi per le aree in concessione ai milioni di euro (246) in investimenti e finanziamenti da enti pubblici.
Ma al di là del merito del referendum quello che si sta scatenando in questi giorni è una campagna di terrorismo psicologico in cui viene agitato lo spettro della disoccupazione.
Il premier ha dichiarato che se vince il SI sono a rischio 11.000 posti di lavoro. Guardiamo i numeri: Assomineraria parla di 13mila occupati nel settore estrattivo in tutta Italia (tra attività a terra e a mare, dentro e fuori le dodici miglia) e 5mila posti di lavoro a rischio con il referendum. Il ministro Galletti fa riferimento alla cifra di 10mila posti di lavoro in meno e la Filctem Cgil sostiene che i lavoratori che rimarrebbero a casa sono 10mila solo a Ravenna e in Sicilia.
Le stime ufficiali riguardanti l’intero settore di estrazione di petrolio e gas in Italia (fonte Isfol) parlano invece di 9mila impiegati in tutta Italia e di un settore già in crisi da tempo. Chi paventa la perdita di posti di lavoro per colpa del referendum non dice che il settore dell’estrazione di gas e petrolio è già in crisi nel mondo e in Italia da diversi anni. A dimostrarlo i rapporti del settore degli ultimi anni o il tavolo di crisi aperto presso la regione Emilia Romagna.
Il 35% delle compagnie petrolifere a causa del crollo del prezzo del petrolio è ad alto rischio di fallimento nel 2016 (rapporto Deloitte), con un debito accumulato di 150 miliardi di dollari. Nessuno si preoccupa di dire che per garantire un futuro occupazionale duraturo bisogna investire in innovazione industriale e in una nuova politica energetica. Negli ultimi decenni si è avuta una consistente diminuzione della produzione da piattaforme in mare senza alcuna strategicità energetica, economica ed occupazionale.
Al contrario il settore delle rinnovabili e dell’efficienza potrebbero generare almeno 600mila posti di lavoro. Centomila al 2030 nel solo settore delle energie rinnovabili, cioè circa il triplo di quanto occupa oggi Fiat Auto in Italia, mentre, al contrario, nel 2015, per un taglio retroattivo degli incentivi, se ne sono persi circa 4mila nel solo settore dell’eolico, 10mila in tutto il settore. A tal proposito ci chiediamo dove fosse il sindacato allora e che senso abbia un sindacato oggi che non ha la capacità di proporre un nuovo lavoro e di capire che la difesa dello status quo è innanzitutto difesa delle lobby del petrolio.
Fino al 31 dicembre 2015 le concessioni avevano durata massima di 30 anni, con un vincolo temporale come qualsiasi altra forma contrattuale. Questo è quanto il referendum del 17 Aprile intende ripristinare, pertanto risulta incomprensibile che una vittoria del SI possa causare la perdita anche di un solo posto di lavoro. Nel nostro Paese, al contrario, ci sarebbero tanti nuovi posti di lavoro se solo il governo decidesse, facendo fede agli impegni presi a Parigi con la Cop21, di puntare sulla produzione di energia pulita.
Noi di Legambiente prendiamo sul serio l’impegno di Matteo Renzi che come ministro dello Sviluppo economico ad interim vuole portare al 50% la produzione da fonti rinnovabili rispetto ai consumi elettrici entro la legislatura. Vogliamo perciò contribuire concretamente con le nostre proposte: biometano come alternativa al gas estratto entro le 12 miglia lungo le nostre coste, autoproduzione e distribuzione locale da fonti rinnovabili, decreto per le rinnovabili non elettriche quali, ad esempio, biomasse a filiera corta ed eolico con impianti di piccole dimensioni, integrati nei territori.
Ecco i provvedimenti da approvare nel prossimo Consiglio dei Ministri per evitare che questa promessa non risulti come l’ennesimo tentativo di far fallire il referendum del 17 Aprile. Questa è l’Italia che vogliamo, non un “sogno”, ma un Paese con un solido e credibile piano energetico che guarda al futuro e all’interesse di tutti.
* L’autrice è la presidente nazionale di Legambiente
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