L’acciaio europeo alza bandiera bianca per la bolla cinese

by ROBERTO MANIA, la Repubblica | 20 Aprile 2016 16:57

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Tutta colpa degli ammortizzatori sociali che la Cina ancora non ha. Perché se il gigante asiatico avesse la cassa integrazione o l’indennità di disoccupazione non avrebbe bisogno di continuare a produrre tonnellate di acciaio che i mercati non chiedono più, a cominciare proprio da quello cinese. Se smettesse di produrre, però, milioni di lavoratori verrebbero licenziati. Un impatto sociale drammatico che Pechino, con il suo welfare state ancora primordiale, non può affatto permettersi. Ci vuole tempo. Questo è il paradosso della nuova guerra dell’acciaio che schiaccia l’Europa, fa tremare la stessa Cina alla ricerca di un altro modello di sviluppo, rilancia il protezionismo economico e ridisegna, infine, gli equilibri nella siderurgia mondiale. Questa è la guerra della sovraccapacità produttiva e dei prezzi stracciati (con sconti fino al 40%).

A Port Talbot, in Galles, sta cadendo la prima vittima. Lì ci sono le acciaierie di Corus, nate dalla fusione tra British Steel e l’olandese Koninklijke Hoogovens. Nel 2007 le comprò il colosso indiano della famiglia Tata. C’era in quell’acquisto anche la voglia di rivalsa dell’ex colonia che entrava dentro le viscere dell’ex impero, visto che dal punto di vista industriale fu un’operazione che lasciò sempre perplessi per la scarsa efficienza di quell’impianto. Oggi perde un milione di sterline (più di 1,2 milioni di euro) al giorno. Rischiano di saltare 15 mila posti di lavoro diretti e altri 60 mila nell’indotto. Un cataclisma che sta facendo riparlare di nazionalizzazione dell’acciaio nel paese che fu anche di Margaret Thatcher.

Pure l’Europa – che in quattro anni ha perso circa 50 mila posti di lavoro nelle acciaierie – è scesa in trincea. Ieri la commissaria del Mercato interno, la polacca Elzbieta Bienkowska, ha rotto un tabù: in un’intervista alla

Frankfurter Allgemeine Zeitung ha detto che si deve «discutere sulla possibilità di rendere più flessibile la valutazione sugli aiuti statali». Insomma per salvare la siderurgia europea dall’assalto cinese si potrebbe far ricorso ai pubblici denari. Fine del mercato.

I cinesi sono i nuovi padroni dell’acciaio. Acciaio low cost, ma non solo. Tra i primi cinquanta gruppi mondiali ce ne sono 27 cinesi, soltanto cinque sono europei (fino al 2012, prima dello scandalo dell’Ilva, i Riva erano al secondo posto in Europa). È di due giorni fa la notizia che il gruppo cinese He Stell si è comprato anche l’acciaieria serba di Smederevo per farne la più competitiva del Vecchio Continente. La Cina produce la metà dell’acciaio mondiale: 860 milioni di tonnellate su un totale di circa 1665 milioni. Al vertice della classifica dei maggiori produttori la sfida è tutta asiatica: il secondo posto è del Giappone, il terzo dell’India, il sesto della Corea del Sud. Gli Stati Uniti che hanno alzato le barriere doganali per difendersi dall’accerchiamento asiatico e diventare un mercato regionale dell’acciaio, sono al quarto posto. Tra i primi dieci paesi produttori ce n’è uno solo europeo, la Germania. L’Italia – che dall’inizio della crisi ha perso nella siderurgia oltre 4.000 addetti – è undicesima.

«Se l’appetito dei consumatori è cambiato non è colpa di chi produce il cibo», ha detto lunedì scorso a Bruxelles il viceministro cinese del Commercio Zhanh Ji al termine di una riunione convocata dall’Ocse proprio per cercare di cominciare a fronteggiare – senza risultati per ora – l’inondazione di acciaio cinese nei mercati mondiali. La colpa, insomma, sarebbe della crisi e della lunga successiva stagnazione. Certo, ma non solo. Per la prima volta dal 1996, nel 2014 la domanda cinese di acciaio è calata del 3,4%. In questo dato c’entra meno la crisi mondiale e c’entra di più il cambiamento di paradigma nello sviluppo dell’economia cinese. È in atto una trasformazione: da un’economia trainata dagli investimenti infrastrutturali (dalle autostrade alle abitazioni) dove è fortissima la componente di acciaio, a un’economia basata sui consumi. Unturnaround, con conseguenze anche sulle dinamiche del Pil, con effetti diretti su tutto il mondo. Perché la “nuova” Cina assorbe meno acciaio, ma continua a produrne tantissimo e lo vende all’estero abbassando i prezzi. Tra il 2015 e il 2014 il calo della domanda globale è stato intorno ai 37 milioni di tonnellate, e ben 35 erano cinesi. Questa è la novità. Secondo le ultime previsioni della World Steel Association il consumo cinese di acciaio continuerà a scendere, del 4% nel 2016 e ancora del 3% nel 2017, mentre la domanda globale dovrebbe calare quest’anno dello 0,8% e risalire l’anno successivo dello 0,4%. Il governo cinese ha promesso una riduzione produttiva di 100-150 milioni di tonnellate nei prossimi cinque anni, ha detto che taglierà 500 mila posti nella siderurgia, ha stanziato oltre 15 miliardi di dollari per trasferire i lavoratori in esubero in altri settori. Ma intanto i forni europei rischiano di spegnersi adesso.

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Nel Vecchio Continente persi in 4 anni 50.000 posti. E la Ue pensa a più flessibilità nella valutazione degli aiuti statali alla siderurgia

 

 

 

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