IL declino dei neoliberisti lascia spazio ai populismi
Alla fine degli anni 80 la caduta del socialismo, segnata simbolicamente dal crollo del Muro Berlino, decretò la fine delle ideologie, in pochi anni spazzate via dalla vittoria internazionale del neoliberismo. Capace di trasformare le spinte contro-sistemiche di un emergente individualismo in benzina per una nuova stagione di crescita economica.
In quel passaggio storico, i vecchi partiti conservatori lasciarono il posto a un nuovo modo di pensare, icasticamente sintetizzato nella celebre formula thatcheriana «la società non esiste». Nel mercato «liberato», era il singolo individuo l’unico e vero protagonista.
A qualche decennio di distanza da quella svolta politica, il combinato disposto di stagnazione economica e pressione migratoria mette in discussione gli equilibri raggiunti dai Paesi avanzati, forgiando nuove visioni politiche.
Soprattutto a destra è in atto una battaglia che probabilmente deciderà del nostro futuro.
È infatti ormai chiaro che in Europa la destra avanza un po’ ovunque, con un discorso duro e carico di risentimento che fa della chiusura agli immigrati, associato alla difesa dell’identità nazionale, la leva principale. Un modo per gridare che la politica europea, gestita da un establishment che continua a essere lontanissimo dal sentire diffuso, non è efficace.
Si tratta di un processo che va acquistando forma e forza crescenti. E che, arrivati dove siamo, è troppo semplicistico ricondurre ai populismi già da molti anni presenti nelle democrazie europee.
In alcuni paesi, partiti che si rifanno a questo schema sono già al governo. Ungheria e Polonia in testa. Ai quali potrebbe ora aggiungersi l’Austria. Senza dimenticare i successi elettorali ottenuti al primo turno delle elezioni amministrative da Marine Le Pen in Francia.
È evidente che ci troviamo di fronte a una nuova proposta politica che avanza la pretesa di succedere ai vecchi partiti di marca neoliberista (con echi anche nella candidatura di Trump negli Stati Uniti).
Fa eccezione, almeno per il momento, la Germania, dove la Merkel riesce a mantenere stabile il principale paese dell’Unione. Ma viene da chiedersi che cosa verrà dopo la cancelliera, che non può essere eterna.
Last but not least, anche nel nostro paese la contrapposizione tra le due destre è ormai evidente nello scontro tra quel che resta di Forza Italia e il tandem Salvini-Meloni.
Ci sono molte buone ragioni per ritenere che si debba evitare che questo fronte costituisca il perno di una nuova stagione storico-politica. La questione riguarda tutti i partiti, di destra e di sinistra. E si deve ancora capire da quale fronte una risposta costruttiva possa arrivare.
Ma in ogni caso il primo passo è riconoscere che, a differenza di quanto accadde negli anni 80, il cuore del problema oggi è il legame sociale: dopo decenni di individualismo spinto e di sganciamento tra economia e società, la prolungata stagnazione economica fa sì che il livello di insicurezza e incertezza sia ormai socialmente intollerabile. In una recente pubblicazione, il Fondo monetario internazionale ha mostrato che, dopo otto anni, solo Stati Uniti e Germania, tra i principali Paesi occidentali, hanno pienamente recuperato il livello di reddito precedente alla crisi. Con una velocità di aggiustamento che, se confrontata con altre grandi crisi finanziarie del passato, risulta particolarmente bassa. Senza tenere conto dei permanenti squilibri esistenti nella distribuzione del reddito.
Come possono società altamente individualizzate e impaurite sviluppare non dico un atteggiamento solidaristico, ma almeno razionale nei confronti di un fenomeno che suona così minaccioso come quello di migranti e rifugiati?
Specie nei ceti popolari, dove il costo della crisi è stato ed è ancora oggi molto salato, il risentimento sta raggiungendo livelli di guardia. E per evitare che arrivi alle sue conseguenze più velenose, c’è bisogno di una risposta politica chiara e realistica, capace di rielaborare questioni rimosse da tempo. E cioè che tra interessi economici e domande sociali occorre trovare un punto di compromesso reciprocamente sostenibile; che l’idea di un astratto cosmopolitismo può forse attrarre piccole élite sociali, ma non il popolo che ha bisogno di forme culturali e istituzionali definite e condivise, tanto più in un mondo molto turbolento; che in una situazione che si fa sempre più complessa è necessario rinegoziare la relazione tra crescita personale e di sistema. Una domanda molto diversa e per certi versi opposta a quella degli anni 80, quando la questione era quella di liberare le energie compresse da uno statalismo soffocante.
Come succede sempre in queste fasi di cambiamento, vincerà chi, aggiornando per primo le proprie mappe cognitive, diventerà capace di dare risposte concrete alle mutate sfide storiche. Senza pensare di vivere in un’epoca che non c’è più.
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