by Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, Corriere della Sera | 27 Aprile 2016 10:56
Non c’è pace, per quella che un secolo e mezzo fa fu l’elegante sala parto dove nacque l’Italia unita. Con gli stucchi, gli affreschi e i soffitti di Palazzo Teti Maffuccini, devastati da sciatteria, incuria, abbandono, è crollato sotto i colpi dell’inchiesta anche il piccolo impero della «casa regnante» di Santa Maria Capua Vetere, la Capua romana da cui partì la rivolta di Spartaco. La dinastia di «Don» Nicola Di Muro e suo figlio Biagio. Uno degli ammanettati di ieri.
Non è un palazzo tra i tanti, quello al centro delle indagini. Lo ricorda una scritta sulla facciata: «In questa casa nel 1860 Giuseppe Garibaldi ebbe alloggio e accoglienza ospitale. Qui il 2 novembre fu sottoscritta la resa di Capua…». È lì che il regno delle Due Sicilie entrò a far parte dell’Italia. Per questo gli sviluppi giudiziari di ieri non sono una storia come tante di appalti e camorra in quella terra martoriata. Quel luogo è speciale. Tutta la vicenda è speciale. Palazzo Teti Maffuccini è uno dei più splendidi esempi di architettura borghese preunitaria nell’ex Regno delle Due Sicilie. La relazione stilata dall’archeologa Giuditta Colombo in vista dell’appalto incriminato e uno studio di Simone Foresta spiegano che sorge nel cuore dalla Capua antica, nell’area del foro dove c’era il teatro. Tra l’Appia antica e il Criptoportico, le Terme e il Capitolium. Dalle sue viscere parte un tunnel che si dice arrivi fino all’anfiteatro, il più grande dell’impero romano dopo il Colosseo. Anzi, è proprio grazie al fatto che quel palazzo avesse un grande giardino se si sono conservati resti che altrimenti non sarebbero sopravvissuti, sottolinea il documento, alle «massicce demolizioni di strutture antiche operate fino ad epoche a noi recenti».
Negli anni del grande sacco edilizio che ha stritolato gli edifici storici, a Santa Maria Capua Vetere (dove un depliant spiegava che «la casa di Cofuleio Sabbio è visitabile soltanto su richiesta ai condomini dell’edificio del quale fa parte» perché ci avevano costruito sopra infischiandosene dei resti romani) nulla è stato risparmiato. Palazzo Teti Maffuccini appare oggi come schiacciato da orribili e altissimi condomini rossi tirati su a pochi metri senza alcuna pietà per le preziose rovine romane sulle quali insistono. E cade a pezzi. Il tetto è sfondato. Gli affreschi delle volte del piano nobile, sbriciolati. I solai, pericolanti.
Una trentina d’anni fa finì in proprietà a Don Nicola Di Muro, potentissimo capobastone democristiano, vicesindaco nell’epoca in cui si perpetrava quel sacco della città. «Il padrone e forse anche il padrino di Santa Maria Capua Vetere», lo definirono i giudici che lo inquisirono per reati quali concussione e associazione camorristica, inseguendolo per sette anni a Parigi, dov’era rifugiato insieme a suo figlio Biagio, allora neppure trentenne. Don Nicola dovette subire anche il sequestro dei beni: per un valore allora stimato in qualcosa come 100 miliardi di lire. Le sue peripezie giudiziarie evaporarono poi fra estradizioni negate, prescrizioni e sentenze cassate. Molti beni gli vennero restituiti, non quel palazzo, confiscato in via definitiva.
L’edificio finì come tanti altri nel calderone dei patrimoni sequestrati dall’Alto commissariato per la lotta alla criminalità organizzata e nel dicembre 1998 venne affidato infine al Comune di Santa Maria. Giusto. Ma da allora, a dispetto di ciò che rappresenta per la memoria della nazione, nessuno se n’è mai curato davvero. Intanto le tegole cadevano, le travi marcivano, le decorazioni si crepavano, il degrado si impadroniva degli ambienti e del giardino.
Finché nel 2010, alla vigilia delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, spunta un finanziamento europeo per riparare almeno una parte di quel palazzo da adibire a centro per la legalità, un segnale forte in un’area ad elevata densità camorristica. Tre milioni in tutto. Una miseria, per com’è ridotto il palazzo. I soldi sarebbero tuttavia sufficienti quantomeno a rifare il tetto, mettere in sicurezza l’edificio e sistemare alcuni locali evitando il rischio del crollo.
Il programma stabilisce come fine dei lavori il 31 dicembre 2011. Ma neanche questo serve. L’iniziativa procede a rilento, gli intoppi burocratici si moltiplicano e del cantiere nemmeno l’ombra. Mentre le condizioni delle strutture si fanno sempre più critiche. La competenza dell’intervento è del ministero dell’Interno, però il soggetto attuatore è il Comune. E qui c’è una sorpresa. Perché nel maggio 2011 chi si ritrova a gestire, come nuovo sindaco, il progetto? Di Muro junior, uscito illeso con il padre da quella vecchia inchiesta giudiziaria.
Fatto sta che gli anni continuano a passare invano in un rimpallo inconcludente di pratiche che vanno e vengono da Santa Maria a Caserta. Finalmente, nel 2015, ecco il fatidico momento di assegnare l’appalto. Ma, ahinoi!, gli anni sono volati e purtroppo siamo già in zona Cesarini, perché i finanziamenti europei devono essere utilizzati tassativamente entro la fine del 2015. Pena la loro decadenza.
E qui c’è un altro colpo di scena: la Dda di Napoli sospetta che imprese vicine al clan Zagaria abbiano messo le mani sull’appalto e si blocca di nuovo tutto. Lo stesso sindaco è indagato e per lui arriva presto un guaio di altro genere. La sua maggioranza si sgretola e a dicembre del 2015 deve lasciare la poltrona al commissario. Nel frattempo il programma comunitario scade e la richiesta di prorogare i finanziamenti avanzata in precedenza dall’amministrazione municipale al ministero per evitare di perdere quei pochi denari, viene vanificata dall’inchiesta.
Addio finanziamenti. Quattro mesi più tardi, trascorso un altro inverno disastroso per i tetti del palazzo, l’ormai ex sindaco finisce in manette. E ora, ammesso che il suo successore voglia di nuovo scalare la montagna, si ricomincia daccapo. C’è solo una cosa che in tutto questo tempo non si è fermata. Il ricorso internazionale alla Corte di Strasburgo che Don Nicola Di Muro ha intentato contro la confisca dei suoi beni. Vuoi vedere che alla fine…
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