by THOMAS PIKETTY *, la Repubblica | 11 Aprile 2016 10:08
DA ANNI, la questione dei paradisi fiscali e dell’opacità finanziaria è in primo piano. Ma purtroppo il divario tra le proclamazioni trionfalistiche dei governi e la realtà delle loro azioni è abissale. Come ha rivelato nel 2014 l’inchiesta LuxLeaks, in Europa le multinazionali riescono praticamente a non pagare imposte grazie alle loro filiali in Lussemburgo. Ora, nel 2016, i Panama Papers rivelano l’entità dei patrimoni dissimulati dalle élite finanziarie e politiche, da Nord a Sud. Possiamo rallegrarci nel constatare che i giornalisti stanno facendo il loro lavoro. Ma il problema è che non lo fanno i governi. In verità, dalla crisi del 2008 a oggi non si è fatto quasi nulla; anzi, per certi versi le cose sono addirittura peggiorate.
Esaminiamo, nell’ordine, i vari aspetti del problema. Sulla tassazione dei profitti delle grandi società, l’esacerbata concorrenza fiscale ha raggiunto punte senza precedenti in Europa. Ad esempio il Regno Unito si prepara a ridurre la sua aliquota al 17 per cento — un livello mai visto in un grande Paese — e al tempo stesso protegge le pratiche predatrici delle Isole Vergini e degli altri siti offshore della Corona britannica.
SE le cose non cambiano, finiremo per allinearci tutti alla tassazione del 12% dell’Irlanda, o addirittura allo 0%; e magari per offrire sovvenzioni agli investimenti, come peraltro si sta già facendo in qualche caso. Frattanto negli Stati Uniti, dove esiste una tassa federale sui profitti, la tassazione è arrivata al 35% (senza contare le imposte dei singoli Stati, tra il 5 e il 10%).
Se siamo in balìa degli interessi privati, è a causa della frammentazione politica dell’Europa e dell’assenza di poteri pubblici forti. La buona notizia è che uscire da quest’impasse è possibile. Se quattro Paesi — Francia, Germania, Italia e Spagna — che insieme rappresentano più del 75% del Pil e della popolazione dell’eurozona, proponessero un nuovo Trattato fondato sulla democrazia e la giustizia fiscale, con una misura forte come un’imposta comune sulle grandi società, gli altri Paesi sarebbero obbligati a seguirli — a meno di chiamarsi fuori dallo sforzo di trasparenza che l’opinione pubblica reclama da anni, esponendosi a sanzioni.
Anche per quanto riguarda i patrimoni privati depositati nei paradisi fiscali la situazione è quanto mai opaca. Dal 2008 i grandi patrimoni hanno continuato a crescere ovunque nel mondo, a ritmi molto più rapidi delle economie, anche perché pagano meno tasse degli altri. In Francia, nel 2013 un ministro del bilancio ha potuto tranquillamente dichiarare di non possedere conti in Svizzera, senza temere che la sua amministrazione venisse a saperlo; e anche in questo caso c’è stato bisogno dei giornalisti per scoprire la verità. In futuro, il problema si dovrebbe risolvere grazie alla trasmissione automatica delle informazioni sulle attività finanziarie, ufficialmente accettata dalla Svizzera (ma tuttora rifiutata dal Panama). Purtroppo, però, si incomincerà ad applicarla timidamente solo a partire dal 2018, con macroscopiche eccezioni, ad esempio sui titoli detenuti attraverso l’intermediazione di trust e fondazioni; e non si prevede alcun tipo di penalità per i Paesi recalcitranti. In altri termini, si continua a vivere nell’illusione di poter risolvere il problema su basi volontarie, chiedendo educatamente ai paradisi fiscali di desistere dai loro riprovevoli comportamenti.
È urgente accelerare il processo, imporre regole severe e comminare pesanti sanzioni commerciali e finanziarie ai Paesi che non le rispettano. Non ci possiamo illudere: solo la reiterata applicazione di sanzioni a tutte le infrazioni, anche minime — che certo non mancheranno, anche da parte dei nostri cari vicini svizzeri e lussemburghesi — potrà dare credibilità al sistema, e farci uscire dal clima di opacità e impunità generalizzata che regna ormai da decenni.
È inoltre necessario un registro unificato dei titoli finanziari. La sua istituzione — come ha efficacemente dimostrato Gabriel Zucman — passa per il controllo pubblico dei depositari centrali (Eurostream e Clearstream in Europa, Depository Trust Corporation negli Stati Uniti). Per dare credibilità al sistema si possono anche immaginare diritti di registrazione comuni su queste attività, i cui proventi potrebbero servire a finanziare un programma mondiale in difesa di un bene pubblico (per esempio, il clima).
Ma resta una domanda: come mai, dal 2008 a oggi, i governi hanno fatto così poco per contrastare l’opacità finanziaria? In breve, la risposta è che si erano illusi di poter fare a meno di agire. Le loro banche centrali hanno stampato carta moneta in quantità sufficienti per impedire il completo tracollo del sistema finanziario, evitando così gli errori che dal 1929 portarono il mondo sull’orlo dell’abisso. Risultato: abbiamo effettivamente evitato una depressione generalizzata, ma senza procedere alle indispensabili riforme strutturali, regolamentari e fiscali.
Potremmo rassicurarci constatando che il bilancio delle grandi banche centrali (passato dal 10 al 25% del Pil, complessivamente) rimane basso se confrontato con l’insieme delle attività finanziarie che detengono gli attori pubblici e privati (intorno al 1000% del Pil, e al 2000% nel Regno Unito), e potrebbe ancora aumentare in caso di bisogno. Ma in verità, ciò dimostra soprattutto la persistente ipertrofia dei bilanci privati, e l’estrema fragilità del sistema nel suo complesso. C’è solo da sperare che il mondo si dimostri capace di apprendere la lezione del Panama Papers, e si decida finalmente ad affrontare il problema dell’opacità finanziaria, senza aspettare una nuova crisi.
* Thomas Piketty è un economista francese specializzato nei temi dell’ineguaglianza sociale È autore di “ Il Capitale nel XXI secolo” ( Bompiani) Traduzione di Elisabetta Horvat
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