Il Def tra auspici, speranze e illusioni
Il governo ha presentato il Def per il 2017. I toni trionfalistici degli anni passati hanno lasciato il posto ad una sgradevole sensazione di impotenza. Non mancano i passaggi evocativi sulle buone politiche, ma i margini di manovra sono esigui e comunque condizionati da passaggi che pesano come macigni sulla politica economica. Il governo aveva scommesso tutto o quasi sugli 80 euro, le decontribuzione per i nuovi assunti e il Jobs Act. Quello che rimane è un pugno di mosche e forse nemmeno quello. Più precisamente si tratta di un fardello di 15 miliardi nel 2017, 19,6 miliardi nel 2018 e 2019 di clausole di salvaguardia, e una crescita che nel migliore dei casi sarà dell’1%.
Le previsioni di crescita per il 2016 passano dal trionfalistico 1,6%, alla più contenuta e incerta 1,2%, mentre nel 2017 il Pil aumenterebbe dell’1,4%. In soli 4 mesi le stime di crescita dell’Italia hanno perso quasi mezzo punto di Pil. Se consideriamo che la riduzione della spesa per il servizio del debito, ormai agli stessi livelli del 1978 (4,1% del Pil), è interamente attribuibile alle politiche di Mario Draghi – chi l’ha detto che l’acquisto di titoli pubblici delle banche centrali non aiutano? -, rimane l’azione di governo che assomiglia molto al lancio di monetine che facciamo – faccio – nella fontana di Trevi di Roma nella speranza che porti buono.
Più intrigante è la «mano-missione» dei saldi di bilancio pubblico. Il deficit scenderà al 2,3% del PIL nel 2016, cioè un miglioramento rispetto al 2,6% del 2015. Questa scarna informazione «nasconde», in realtà, le misure che il governo prenderà per soddisfare le istanze europee circa le clausole di flessibilità (1 punto di Pil) e, in ultima analisi, per ridurre l’onere della manovra correttiva per il 2017 appesantita da 15 mld di risparmi o maggiori tasse (Iva e accise). Infatti, il deficit programmatico per il 2017 passa da 1,1% a 1,8% del Pil. Quanto basta per eludere, ridurre o rimandare gli interventi di spending review con il trucco del maggiore deficit e spacciarlo per una riduzione delle tasse. Un evergreen buono per tutte le stagioni.
Il Def, ancorché a livello implicito, fa leva su una ulteriore flessibilità europea per il 2017, fissando un rapporto deficit/PIL all’1,8%. Un obbiettivo difficile viste le difficoltà manifestate nel raggiungere gli obiettivi nel 2015 e 2016. Infatti, la flessibilità di norma dura solo un anno e l’Italia l’ha sfruttata nel 2016. Una conferma potrebbe arrivare da Bruxelles il mese prossimo, quando l’Ue sarà chiamata a dare un giudizio definitivo sulla Legge di Stabilità 2016.
Non mancano le privatizzazioni, ma le entrate non potranno essere quelle indicate nel Def: 0,5% punti di PIL nel 2016, 2017 e 2018. L’andamento erratico della Borsa, la crisi del debito privato, nonostante la socializzazione del debito privato rimane ancora molto alto, rende difficile la cessione delle partecipate pubbliche.
La politica economica ha sempre lo stesso segno: annullamento della tassa sul capital gain, incentivi per alimentare gli investimenti delle imprese italiane non quotate e sgravi fiscali generati dal reinvestimento degli utili. La crescita passa sempre dalle imprese, nonostante siano tra le più de-specializzate dei paesi europei. La solita politica dal lato dell’offerta e la solita politica della riduzione dei costi.
La crisi potrebbe però cambiare segno alle politiche europee e a quelle sgangherate del governo Renzi. Un altro zero virgola determinerebbe uno shock che la Bce non potrebbe sopportare.
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