Cambiamento climatico, una rivoluzione obbligata

by Guido Viale, il manifesto | 8 Aprile 2016 10:34

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Al vertice sul clima di Parigi i «capi» di 192 paesi hanno preso degli impegni enormi: mantenere l’aumento della temperatura del pianeta sotto i 2 e possibilmente vicino a 1,5 gradi centigradi. Per questo bisogna evitare di disperdere nell’atmosfera più di mille miliardi di CO2 equivalente di qui al 2100 (ne produciamo 35 miliardi all’anno).

Per raggiungere l’obiettivo i contraenti hanno presentato dei piani nazionali (detti Indc) molto generici, perché non ne viene indicato il «soggetto attuatore» che, per il pensiero unico dominante, non può che essere «il mercato»; non gli stati né i loro governi, né tantomeno il «popolo sovrano» e le sue comunità, ma la finanza.

Il non detto di quei piani è questo: gli interessi dell’industria petrolifera sono talmente grandi che a metterli in forse in tempi rapidi, anche oggi che il prezzo del petrolio è ai minimi, si rischia il tracollo dell’economia mondiale.

Solo a lasciare sottoterra le riserve di idrocarburi che non dovrebbero essere più bruciati per non superare la quantità di emissioni climalteranti che ci separano dai due gradi in più di temperatura si mandano in fumo decine di migliaia di miliardi già quotati in borsa. Poi ci sono gli impianti (trivelle, pipeline, miniere, flotte, raffinerie, centrali termiche, ecc.): altre decine di migliaia di miliardi ancora da ammortizzare (e quando lo sono già, vere mucche da mungere per fare profitti, anche se vanno in pezzi).

Quei piani sono comunque insufficienti a raggiungere l’obiettivo; per cui è già stato stabilito che nel 2020 dovranno essere rivisti al rialzo. E lo si dovrà fare per forza, perché il clima sta già precipitando verso un disastro irreversibile per il pianeta e per la vita umana, cioè per tutti noi, i nostri figli, i nostri nipoti.

Niente sarà più come prima («This changes everything») come ha scritto Naomi Klein: sia che si cerchi di proseguire sulla strada del business as usual, facendo precipitare la crisi climatica; sia che si decida per una vera transizione energetica verso efficienza e fonti rinnovabili: che può essere realizzata solo cambiando radicalmente consumi, prodotti, processi produttivi e soprattutto sistemi di governo dell’economia: nella forma di una vera democrazia partecipata.

«Una rivoluzione»: la scelta obbligata che, seguendo il titolo che è stato dato alla traduzione italiana del libro della Klein, «ci salverà». Le tecnologie per realizzarla sono già disponibili, e potrebbero moltiplicarsi se si dedicasse loro l’attenzione e le risorse che meritano. I costi sono perfettamente affrontabili e i risparmi che ne possono derivare li ripagherebbero in tempi ragionevoli.

Quello che manca è l’organizzazione, che non è la green economy (investire dove i ritorni sono immediati e lasciar perdere tutto il resto), ma la democrazia economica: il controllo delle comunità sulle attività che le vedono impegnate. In termini sintetici: tutto ciò che prolunga in qualsiasi forma la dipendenza dai fossili non fa che ritarare la transizione e renderla più costosa domani, in termini economici, ambientali, umani.

Alcuni driver di una transizione del genere sono già all’opera: le assicurazioni sono a mal partito per i danni creati dagli eventi estremi provocati dai mutamenti climatici; è in corso un processo di disinvestimento dalle risorse fossili da parte degli organismi più avvertiti: dai Rockfeller alla Norvegia, il paese con la popolazione più ricca del mondo grazie al petrolio. I costi impiantistici delle rinnovabili scendono a picco mentre quelli dell’inquinamento da petrolio e carbone vanno alle stelle…

Per questo appare paradossale che, appena rientrato da Parigi, dove come al solito aveva spiegato che nel campo della conversione energetica l’Italia, cioè lui, è più avanti di tutti (tesi ripetuta pochi giorni fa), Renzi e il «cerchio magico» del suo governo si siano dati da fare per spremere fino all’ultima goccia il petrolio che sta sotto i mari e il suolo italiani. Cercando prima di eludere i referendum contro le trivelle a mare, per poi aprire uno scontro frontale con i suoi promotori. E riconfermando e peggiorando il progetto, messo a punto a suo tempo dall’ex ministro Passera, di trasformare il nostro paese in terminale e deposito in conto terzi (cioè per tutta l’Europa) del gas importato dalla Russia e dal Nordafrica; anche a costo di scassare il territorio con un gasdotto e degli stoccaggi che minacciano l’Italia nelle sue zone più sismiche, come l’Aquila e l’Emilia.

D’altronde si tratta di quello stesso Renzi che adora Marchionne (quello che ha assunto 1.000 nuovi operai dopo averne messi alla porta 20.000 in meno di dieci anni) invece di spiegargli che né l’Italia né il resto del mondo hanno bisogno di una jeep per andare a fare la spesa o portare i bambini a scuola; e che prima o poi quei mastodonti dovranno rimanere fermi. E con loro gli operai che li fabbricano.

Insomma, più si sbraccia a presentarsi ed esaltarsi come innovatore e più Renzi si abbarbica alla più superata e nociva delle opzioni economiche: tenere in vita, in tutte le forme, l’economia del petrolio e delle fonti fossili.

Questa è la vera posta in gioco del referendum del 17 aprile: non le misere royalties ricavate dal petrolio, che non valgono il costo che Renzi fa pagare agli italiani per non aver accorpato referendum ed elezioni amministrative; non i pochi, sporchi e insalubri posti di lavoro che verranno a mancare quando arriveranno a scadenza le concessioni che lui vorrebbe confermare a tempo indeterminato; bensì le decine di migliaia di nuovi occupati che un programma di riconversione energetica potrebbe creare – e che in parte avevano cominciato a esser creati prima che Renzi spostasse le sue fiches dalle energie rinnovabili al petrolio, facendone già perdere quasi 80mila – oltre a tutti quelli (turismo, pesca e agricoltura) che il petrolio distrugge; ma, soprattutto, il ritardo e il danno che l’attaccamento alle risorse fossili finirà per imporre a un paese escluso da una riconversione energetica ormai irrinunciabile.

Questo è il tema di fondo, quello che fa della campagna contro le trivelle un momento di informazione, di riflessione e di auto-educazione su una questione ineludibile su cui il governo – ma non solo lui – ha steso un velo mentre avrebbe dovuto metterlo al centro di tutto il suo operato.

Poi viene il resto, che non è poco: cioè il modo in cui petrolio e risorse energetiche vengono estratte e sfruttate, il seguito di inquinamento, di degrado ambientale, di danni alla salute, di vite distrutte, di corruzione e di deficit democratico che l’economia degli idrocarburi si porta dietro. Non solo in Italia.

Il petrolio, come è noto, è la merda del diavolo: che ha fatto piombare tutti i paesi dove viene estratto e lavorato in uno stato di degrado ambientale, sociale e istituzionale tanto maggiore quanto più è consistente la finta ricchezza di cui dovrebbero beneficiare: che è ricchezza per chi se ne appropria, non per chi vive su quei territori.

Guardate il golfo persico, l’Arabia Saudita, l’Iraq, l’Iran, la Nigeria, la Libia, il Texas e le regioni del Canada devastate dall’estrazione delle sabbie bituminose; ma anche la fatica del Venezuela per cercare di liberarsi dal cappio politico del dominio degli Stati uniti sulle sue riserve; e vedrete quasi soltanto distruzione di interi territori e dei paesaggi più belli del mondo, miseria e oppressione delle comunità che hanno la sfortuna di abitarli, prepotenza di chi si avvantaggia di quelle risorse a loro spese.

Così anche l’Italia, nonostante le sue riserve infime, è riuscita a importare – cercando beninteso di tenerle nascoste – buona parte delle disgrazie che accompagnano lo sfruttamento degli idrocarburi in tutto il pianeta: in quel campo «il mercato» è questo; e la «concorrenza» si fa così: corrompendo, inquinando e massacrando cittadini e lavoratori.

Perché quando in gioco ci sono «scambi di favori» un’impresa vale l’altra: Eni e Total pari sono; e quella ricchezza nazionale che il governo dice di voler mettere a frutto può tranquillamente defluire verso le raffinerie e le reti di un concorrente: l’importante è che gli amici degli amici – o i coniugi dei ministri – ne ricavino il loro tornaconto.

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