L’incubo dei sommersi di Lesbo “Respinte le richieste d’asilo”

L’incubo dei sommersi di Lesbo “Respinte le richieste d’asilo”

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MITILENE La storia, a volte, si scrive con le lacrime. E la tragedia dei sommersi di Lesbo, i 4.130 rifugiati rimasti prigionieri dell’isola greca in attesa di capire quale sarà il loro futuro, ha il suono disperato e dolce dei singhiozzi della ragazza adolescente — camicia bianca e gonna a scacchi rosa — scoppiata a piangere ai piedi di Papa Francesco nel campo-prigione di Moria. Dodici profughi come lei, assieme alle loro famiglie, si sono lasciati alle spalle ieri il loro incubo, imbarcandosi sull’aereo che ha riportato il Santo Padre in Italia. Per lei invece, come per i 53.660 rifugiati bloccati da settimane in Grecia, il dramma, per assurdo, rischia di essere appena iniziato.

«Dopo tutto quello che abbiamo passato, le lacrime sono l’unica cosa che ci resta», dice amaro Hussein Haddadi, 28enne del Kurdistan iracheno, seduto al chiosco del venditore di polli allo spiedo fuori dal campo rifugiati di Kara Tepe («un paradiso rispetto a Moria») la tendopoli da dove sono partiti i siriani portati dal Papa in Italia. «L’Odissea della ragazza di Moria è la stessa che ho vissuto io. Siamo scappati dalla guerra e dalla miseria alla ricerca di un futuro migliore. Abbiamo attraversato frontiere di notte e al freddo, pagato migliaia di dollari ai contrabbandieri di uomini, affrontato al buio la traversata tra Turchia e l’isola ellenica, cinque miglia di mare dove in 16 mesi sono morte 4.500 persone. Senza mai perderci d’animo». Poi a sorpresa, in una giornata di sole quasi estiva e con la gente vestita a festa sono arrivate le lacrime della ragazza Moria. «Perché adesso? Perché lei, come tutti noi, ha perso la speranza».
Fino al 20 marzo, giorno dell’intesa tra Ue e Turchia, Moria era un campo d’accoglienza, Lesbo una tappa dell’Odissea verso la speranza e la Grecia un paese di transito verso l’Europa. Poi ha vinto la realpolitik. La rotta balcanica così è stata chiusa, le reti di filo spinato hanno sigillato Atene e Mitilene fuori dal mondo. «E chi come me è arrivato qui dopo il D-Day si è trovato davanti a un muro. Senza soldi e, cosa che è anche peggio, senza niente in cui sperare», dice Hussein.
Vale per lui, per la ragazza di Moria, per i 7.310 bloccati sulle isole dell’Egeo in attesa di capire che ne sarà di loro. «Tutti terrorizzati come me di essere rispediti in Turchia», spiega Ahmed, «siriano di Deir Azzor come Ramy e Suhila, una delle famiglie partite oggi con il Papa», dice con orgoglio. La richiesta d’asilo? «L’ho fatta ma ci spero poco», aggiunge. Le procedure, dicono tutti qui, sono poco più che una farsa. Mancano avvocati, interpreti, spiegazioni sui diritti dei singoli. Cinquecento persone sono state già rispedite dall’altra parte dell’Egeo, ammanettate e scortate a uomo dai funzionari del Frontex. «Stamattina ci hanno detto da Moria che respingono anche le domande di noi siriani», racconta preoccupatissima Aisha, appoggiata alla sbarra gialla che chiude il campo di Kara Tepe. Il motivo? «Ankara, è scritto sui foglietti che consegnano, è un paese sicuro. E quindi dobbiamo tornare lì. Ma lo sanno che i turchi ci obbligano tornare in Siria con la forza?». Domandaretorica. L’Europa, semplicemente, non vuole sentire la risposta. Occhio non vede, cuore non duole.
Ieri mattina è circolata con insistenza la voce — ripresa pure dalla Bbc — di un tentativo di suicidio a Moria dopo il “no” a una richiesta d’asilo. Le Ong, nelle ultime ore l’ha fatto Oxfam, hanno chiesto di sospendere i rimpatri per ripensare i termini di un accordo “disumano”, copyright dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite. Papa Francesco, per poche ore, ha acceso un faro sul dramma di Lesbo. Dodici fortunati ce l’hanno fatta grazie a lui. Per gli altri il dramma continua. E da domani non ci saranno più nemmeno le telecamere a riprendere le lacrime disperate di una ragazza rimasta senza futuro.


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