In Siria si vota, a Ginevra si esclude

by Chiara Cruciati, il manifesto | 14 Aprile 2016 10:21

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File ai seggi a Damasco, Homs, Qamishli. Fuori i muri delle città siriane sono tappezzati con i volti di 3.500 candidati al parlamento: donne con il velo, donne senza, giovani uomini in cravatta, e sullo sfondo di tanti volti la bandiera siriana. Ieri parte della Siria si è presentata ai 7mila seggi aperti in 12 delle 14 province del paese per scegliere i 250 nuovi parlamentari.

Nella Biblioteca Al-Assad della capitale ha infilato la scheda nell’urna anche il presidente Bashar al-Assad. Con una decisione giudicata dal fronte anti-Damasco controproducente il presidente a metà febbraio aveva annunciato la tornata elettorale, per legge prevista ogni 4 anni (le ultime si tennero nel 2012). Che ha finito per coincidere con l’apertura di un nuovo round di negoziati a Ginevra.

Assad vuole presentarsi in Svizzera con un risultato a lui favorevole. Un voto che giunge mentre infuria la guerra civile e la metà del popolo siriano è o rifugiato all’estero o sfollato all’interno. Ed infatti si è votato solo nei territori sotto il controllo del governo, dove attualmente vive l’80% dei siriani ancora nel paese: fuori le province di Raqqa e Idlib, ma anche città negli altri distretti non sono state raggiunte perché sotto Isis, al-Nusra o gruppi delle opposizioni. A Deir Ezzor le urne sono arrivate dall’alto, con gli elicotteri.

Che questo voto sia uno scudo contro le pressioni del fronte anti-Damasco è chiaro. Ieri al tavolo Onu, ancora appesantito dalle precondizioni reciproche mai scalfite nei precedenti incontri, si è presentato l’Hnc, Alto Comitato per i Negoziati, federazione dei gruppi anti-Assad imbastita dalla monarchia Saud a dicembre. Quella governativa arriverà domani, per portare con sé il risultato delle parlamentari su cui i due fronti sono già spaccati: Mosca parla di strumento per evitare un vacuum politico; Washington le giudica illegittime e annuncia che non ne riconoscerà l’esito qualsiasi sia la partecipazione popolare.

E se l’Hnc accusa il governo di propaganda e elezioni decise unilateralmente, da imputare alle opposizioni interne ed esterne c’è un dialogo che inclusivo non lo è affatto. Anche stavolta a Ginevra non ci saranno i kurdi siriani, il Pyd di Rojava. Escluso al primo round dal diktat della Turchia, stavolta è tagliato fuori dall’Occidente: la scorsa settimana la Russia ha presentato in Consiglio di Sicurezza Onu la richiesta di inclusione dei kurdi al tavolo svizzero, ma i paesi occidentali membri hanno posto il veto. Rojava resta fuori, nonostante il ruolo militare nella lotta all’Isis e la chiara visione democratica.

Dentro, ben radicati, stanno invece i salafiti di Ahrar al-Sham e Jaish al-Islam, alleati militari di al-Nusra. La ragione? Sono creature di Golfo e Turchia che le hanno fatte prosperare in chiave anti-Assad e oggi ne impongono la presenza all’interno di una federazione delle opposizioni troppo composita e frammentata per rappresentare un’alternativa credibile.

Difficile prevedere cosa uscirà dal nuovo round negoziale a causa delle distanze tra le due parti e le mosse militari sul terreno. Martedì il governo siriano ha annunciato il via all’operazione per la ripresa di Aleppo. Ad aprire la strada saranno i raid russi. Ma si muovono anche gli Stati uniti: il Wall Street Journal ha rivelato di meeting segreti prima del 27 febbraio (entrata in vigore dell’attuale cessate il fuoco) tra la Cia e le intelligence dei paesi arabi alleati. Sul tavolo hanno messo il “piano B”, nel caso di collasso della tregua: la Cia si è detta pronta a riarmare le opposizioni moderate, stavolta con strumentazioni migliori in grado di colpire artiglieria e aviazione governative.

Spara anche la Turchia che negli ultimi due giorni ha aperto il fuoco contro il nord della Siria in risposta a missili lanciati nel proprio territorio da gruppi islamisti. Alta tensione anche nel sud est turco dov’è in corso la campagna militare anti-kurda. Lunedì Ankara ha approvato un decreto del Ministero degli Interni che ordina l’espropriazione di proprietà private kurde nelle province di Diyarbakir, Hakkari, Mardin e Sinrak. Al loro posto saranno costruiti posti di polizia.

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