by Sergio Segio | 14 Aprile 2016 8:41
Mentre negli Stati Uniti montano le proteste di Democracy Spring[1], con marce, sit-in, azioni di disobbedienza civile e centinaia di arresti, per denunciare il rapporto di condizionamento dei soldi, della corruzione e delle lobby sulla politica, in Italia è già scemata l’attenzione pubblica per il bubbone emerso con l’inchiesta della procura di Potenza su Tempa Rossa. Inchiesta che, certamente, deve seguire il suo corso e arrivare a conclusione prima di poter esprimere certezze e condanne, ma che altrettanto sicuramente già evidenza un rapporto patologico tra processo legislativo e affari.
Il potere delle lobby petrolifere condiziona non solo la politica ma anche i media: le spinte all’astensionismo da parte del governo e la disinformazione sul referendum del 17 aprile[2] sulle trivellazioni petrolifere in mare sono una delle ulteriori riprove.
Oltre a quello del petrolio, storicamente e attualmente il potere economico-industriale più penetrante e attivo nelle strategie di corruzione e condizionamento a livello globale è senz’altro quello legato agli armamenti.
L’esempio più recente lo segnala oggi il quotidiano “la Repubblica”[3]: con la legge navale il governo italiano stanzierà circa cinque miliardi e mezzo per acquistare una nuova flotta militare “al buio”, nel senso che nessuno sa di che navi si tratti, in che numero siano e che funzioni dovranno avere. Tutto ciò senza gare e a trattativa diretta. E a scatola chiusa: i fornitori sono Fincantieri e Finmeccanica, il prezzo è già stabilito; tutto il resto è affidato alla fiducia: caratteristiche, prestazioni, dotazioni, dimensioni. «Comprereste un’automobile senza conoscerne la velocità, il motore, i sedili, gli optional? Senza neppure vedere un progetto o un modellino definitivo della vettura?», chiede retoricamente il giornalista. La risposta di ognuno di noi è naturalmente negativa, ma evidentemente i soldi pubblici seguono logiche differenti e imperscrutabili.
Ben di rado, del resto, il business segue ragioni etiche e men che mai quello, fiorentissimo, degli armamenti.
Nello scorso anno l’Arabia Saudita ha superato la Russia nelle spese militari, collocandosi così al terzo posto nel mondo, dopo Stati Uniti e Cina. Nel 2015 queste spese, globalmente, sono ammontate a 1.676 miliardi di dollari, con una nuova tendenza al rialzo, dopo tre anni di stasi. Lo certifica il SIPRI[4], nel consueto Rapporto annuale, diffuso in questi giorni e passato naturalmente inosservato nella grande stampa, giacché l’argomento potrebbe infastidire le cosiddette “banche armate” e i gruppi economici presenti nelle compagini proprietarie delle testate stesse.
Fatto sta che l’Arabia Saudita, attualmente impegnata in una guerra nello Yemen, è anche il secondo importatore di armi al mondo. Una parte di esse arriva dall’Italia[5], che, quanto a export di armamenti, si classifica all’ottavo posto.
Un’altra “petromonarchia” del Golfo, il Kuwait, ha appena concluso un accordo con Finmeccanica, che gli fornirà ben 28 caccia Eurofighter Typhoon: una commessa da 7-8 miliardi, la più grande mai acquisita dall’industria italiana, il cui ex amministratore delegato, peraltro, è appena stato condannato dalla Corte d’appello di Milano per corruzione internazionale in una vicenda di fornitura di 12 elicotteri all’India, che è il primo paese importatore di armi al mondo.
Già, perché il settore bellico, proprio come quello petrolifero, è uno di quelli dove maggiormente prosperano corrotti e corruttori, dati i volumi di denaro gestiti, la scarsa trasparenza grazie alle ragioni di segretezza militare, i legami e le cointeressenze con regimi scarsamente o per nulla democratici, come appunto gli Emirati del Golfo. Non da oggi, le tangenti “esterovestite” sono le più al riparo da infortuni giudiziari.
Il mercato del petrolio e quello delle armi sono spesso intrecciati, e altrettanto di frequente il primo alimenta la domanda del secondo, essendo alla base di numerose guerre e conflitti.
Anche perciò colpisce il plauso per l’affare concluso da Fimneccanica da parte dei sindacati[6]: le ricadute occupazionali sono certo importanti, ma non a discapito della vita e della sicurezza di quelle popolazioni civili costrette nella morsa delle guerre[7] e della violazione dei diritti umani[8]. O della repressione, come nell’Egitto di Al Sisi, che l’Italia rifornisce abbondantemente di pistole e fucili, come ha ricordato Vita[9] in questi giorni. Chi promuove giustizia sociale, cerca di interpretare l’interesse generale e difendere i beni comuni non può scivolare nella cinica logica del mors tua, vita mea.
Se ciò accade è anche perché, a differenza di Democracy spring o delle lotte che in Francia[10]vedono, assieme, studenti, lavoratori e sindacati contrastare leggi sul lavoro inique e precarizzanti, da noi la reazione alla corruzione si traduce nelle retoriche legalitariste e negli inoffensivi populismi anti-casta, alimentando semmai l’antieuropeismo becero dei partiti nazionalisti e identitari, nonché la pericolosa deriva xenofoba che sta disseminando l’Europa di filo spinato e muraglie.
Frontiere risorgenti, disumane e antistoriche, che vanamente ma violentemente cercano di frenare l’esodo delle vittime anche del nostro export bellico, della nostra miopia, del nostro egoismo, peraltro autolesionistico.
C’è un ignobile filo nero che unisce i profughi e i bambini gasati dai lacrimogeni a Idomeni, deportati in Turchia o confinati in depositi di scorie umane, e il grumo di interessi cui partecipano politica, media, imprese. Nella massima indifferenza delle pubbliche opinioni e nel silenzio e passività, complice o impotente, di tanta parte della società italiana.
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