Riforme, Renzi è già al “chi mi ama mi segua”
Il giorno dopo la «giornata storica» è quello in cui effettivamente si vota la riforma costituzionale. Non parla il presidente del Consiglio (è in Iran) ma torna la ministra Boschi (era a Londra). Resta semivuota la camera dei deputati. La legge di revisione costituzionale, presentata giusto due anni fa dal governo e firmata Renzi-Boschi, viene definitivamente approvata dal parlamento. Modifica 43 articoli della seconda parte della Costituzione italiana e uno della prima parte, ne abroga quattro, cambia anche tre leggi costituzionali e introduce 21 nuovi commi come disposizioni transitorie. Né al senato a gennaio, né alla camera ieri la legge ha raccolto il sì dei due terzi dell’aula, per questo si potrà chiedere il referendum. Lo faranno senz’altro i parlamentari di minoranza, lo farà il comitato del no provando a raccogliere 500mila in tre mesi. Ma lo faranno anche i parlamentari di maggioranza, dal momento che Renzi vuole un referendum su se stesso. «Il no – ha detto ieri – si spiega solo con l’odio nei miei confronti».
La morte di Gianroberto Casaleggio cambia i piani delle opposizioni. Così come in altre votazioni finali, l’idea era quella di far slittare la conclusione attraverso l’ostruzionismo. Nella fase delle dichiarazioni di voto, ogni singolo deputato ha diritto di intervenire. Ma la maggioranza ha contromosse già sperimentate in due anni di forzature e strappi al regolamento. La nuova Costituzione si sarebbe potuta votare anche di notte, anche con una seduta fiume di quelle che si concedono per le leggi urgenti e in scadenza. Così l’occasione di evitare una battaglia faticosa e infine inutile è stata colta al volo, come pure quella di regalarsi qualche ora in più per la campagna per il referendum di domenica prossima (o per il riposo, i lavori sono sostanzialmente interrotti fino alla prossima settimana). I deputati grillini non avevano più l’animo per l’ostruzionismo. Hanno rifiutato anche a una (non ufficiale) proposta di sospensione dei lavori. In ogni caso anche loro, come Forza Italia, Sinistra italiana e Lega, sono usciti dall’aula al momento dell’ultimo voto.
L’aula della camera è un semicerchio composto da dieci spicchi, solo cinque erano fittamente occupati ieri alle 17.57 quando la legge è stata votata per l’ultima volta, poi c’era qualche deputato sparso in altri banchi. I favorevoli sono stati 361, anche meno dell’ultimo passaggio alla camera (a gennaio erano stati 367). Lontanissima la soglia della maggioranza dei due terzi (420), il voto di ieri si colloca all’incirca a metà tra la maggioranza teorica che sostiene il governo (392 deputati, contando anche la truppa di Verdini) e la maggioranza assoluta al di sotto della quale la riforma non sarebbe stata neanche proponibile. Sono mancati una trentina di voti, quasi tutti per le assenze: 13 nel Pd, di cui solo una con un valore politico rivendicato (il prodiano Franco Monaco), sette tra gli alfaniani di Alleanza popolare, sette anche in Scelta civica, compresi due astenuti e due contrari. Compatti per il sì i sette verdiniani.
Anche le minoranze interne del Pd hanno votato a favore, come negli altri passaggi parlamentari in cui avevano preferito «non interrompere il percorso» di una riforma che pure, frequentemente, criticano. Ieri hanno accompagnato l’ultimo sì con una lunga dichiarazione firmata Cuperlo, Lo Giudice e Speranza. Annunciano di non aver ancora deciso come si schiereranno al referendum costituzionale e avanzano tre condizioni per un appoggio che pure Renzi dà per scontato («tutto il Pd voterà sì», ha detto ieri). Le tre condizioni sono «rivedere l’Italicum, fare la legge elettorale perché i cittadini possano scegliere chi mandare al nuovo senato e non trasformare il referendum in un plebiscito». Ma le prime due condizioni sono irrealizzabili entro il referendum di ottobre: l’Italicum diventa pienamente applicabile solo a luglio, la legge nazionale per l’elezione dei senatori è ancora in mente dei (la sinistra ha presentato una proposta negli stessi termini più o meno ultimativi tre mesi fa e non è stata mai discussa); inoltre è discutibile che una legge nazionale possa decidere sulle leggi elettorali regionali. La terza condizione è smentita ogni giorno da Renzi, anche ieri dall’Iran: «Non possono esserci ragioni per votare no». Se non, ha detto, «l’odio contro di me».
Le ragioni per opporsi alla riforma, invece, le stavano ricapitolando fuori da Montecitorio i rappresentanti del comitato del No, che hanno organizzato una manifestazione portandosi dietro i moduli per la raccolta delle firme per i referendum abrogativi dell’Italicum (quelli per il referendum costituzionale arriveranno tra qualche giorno). Nel frattempo dentro l’aula erano rimasti solo i favorevoli, e tutti si stavano mettendo in fila per fare i complimenti alla ministra Boschi con strette di mano, pacche sulla spalla, abbracci o baci, i più audaci anche un selfie. Dopo aver personalizzato al massimo la scelta nel referendum, Renzi dovrà cominciare a mettersi al fianco qualche altro testimonial della riforma costituzionale. La ministra sicuramente, ma anche l’ex capo dello stato per il quale ha chiamato l’applauso dell’aula lunedì e che, i sondaggi lo informano, è ancora assai popolare. «Oggi – ha detto – si celebra una vittoria storica, la vittoria di Napolitano senza il quale non saremmo qui». Lui sicuramente.
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