Nel dossier di sole 30 pagine l’ultima beffa degli egiziani “Niente tabulati, c’è la privacy”
ROMA C’È STATO un momento esatto in cui è apparso chiaro a tutti che era finita. Ieri, all’ora del pranzo. Davanti a un risotto mantecato zucchine e gamberetti e a un’orata al forno con patate. Seduti intorno al tavolo di uno dei saloni del Casale Renzi, residenza storica dell’Arma, nel cuore verde dei Parioli, serviti da appuntati in livrea con vassoi in peltro.
«OTTIMA l’orata». Il procuratore generale aggiunto del Cairo Mostafa Soliman, il suo giovane addetto alla cooperazione Mohamed Hamdy, i generali Adel Gaffar, Mostafa Meabed, Ahmed Aziz e Alaa Azmi, scherzano e mangiano con l’appetito di chi sta celebrando la fine di un’indimenticabile vacanza romana. Chiedono agli esterrefatti commensali italiani, quando ci si rivedrà. Annuiscono di fronte alle richieste di bis di quel menù preparato nel rispetto della dieta musulmana. Fingono di non capire che il fondo del barile è stato raschiato. Che la pazienza italiana è esaurita.
LA CARTELLINA
«Vogliamo trovare i responsabili della morte di Giulio Regeni. Chiunque essi siano», annuncia con enfasi giovedì mattina il Procuratore Mostafà Soliman. Ma è un salamelecco. L’ennesimo. Perché dopo la consegna degli atti da parte del Procuratore Giuseppe Pignatone, le slide e l’esposizione dei referti autoptici sul corpo di Giulio del professor Vittorio Fineschi, quando insomma tocca a loro aprire la borsa, ne esce una striminzita cartellina. Avevano fatto annunciare un dossier di 2 mila pagine, che aveva convinto la Procura ad assicurare la presenza durante gli incontri di 10 interpreti. Ne avevano portate neppure una trentina. Gli inutili tabulati telefonici di Gennaro e Francesco, gli amici di Giulio. L’altrettanto inutile verbale di ritrovamento del suo cadavere. Il grottesco verbale con cui, un testimone, riferiva che «non erano state fatte riprese della riunione sindacale dell’11 dicembre 2015», quella in cui Giulio era stato fotografato. Fuffa.
I DATI DELLE TELEFONATE
Tocca allora a Pignatone, dopo un profondo respiro, chiedere di nuovo quanto era stato promesso dalla Procura generale egiziana: lo sviluppo della cella telefonica del quartiere di “Dokki” (luogo della scomparsa di Giulio) tra le 19,45 e le 20.15 del 25 gennaio e di quella, tra la notte del 2 e la mattina del 3 febbraio, del quartiere “6 Ottobre” (zona del ritrovamento del suo corpo). Ma solo per sentirsi rispondere che quei dati non saranno mai consegnati «per ragioni di privacy ». Il Regime militare di Al Sisi invoca il «rispetto dell’articolo 57 della Costituzione che protegge il segreto delle comunicazioni dei suoi cittadini». E ci sarebbe da ridere se non fosse una provocazione. Non fosse altro perché quell’obiezione non è stata sollevata dall’Egitto né il 14, né il 22 marzo, quando viene preso l’impegno alla consegna. Pignatone tenta allora un’altra strada. «Potreste portare voi i dati ed esaminarli qui a Roma dove vi metteremmo a disposizione i software ». «La privacy ce lo impedisce », rincula l’ineffabile Mostafà.
I DUE ARABI E GIULIO
Non va meglio con i tabulati. Ne aveva chiesti una ventina la Procura. Due su tutti. Quelli di Mohamed Abdallah, capo del sindacato degli ambulanti risentito con Giulio per il denaro di una ricerca non andata in porto. E quelli di Mohamed, il coinquilino di Regeni. Quello che aveva aperto alla Sicurezza Nazionale la casa dove Giulio viveva, tacendogli la circostanza. Ma neanche quelli sono nella borsa dei 6 del Cairo. «Magari, allora, avete le informazioni su quei due nomi arabi che vi abbiamo chiesto il 14 marzo… », abbozza uno dei nostri inquirenti, riferendosi a due singolari chiamate ricevute da Giulio la mattina e il pomeriggio del 25 gennaio, giorno della sua scomparsa, da due cellulari intestati a cittadini egiziani. «Non abbiamo ancora completato l’identificazione », è la risposta.
LA BUFALA DEI RAPINATORI
Giovedì pomeriggio la delegazione egiziana si congeda con un impegno. «Lavoreremo stanotte ». È una balla. Perché non ha nulla da dire. Come del resto scopre lo Sco quando, riaccompagnati i 6 in albergo, vede immediatamente riuscire dall’hotel i quattro generali per un indimenticabile pomeriggio e serata nel centro di Roma. Non a caso, ieri, e questa volta con tavoli separati (i magistrati in una sala, i poliziotti nell’altra), si ricomincia dal nulla. Gli egiziani rianimano la macchinazione della Banda dei 5, i disgraziati cadaveri “serviti” come gli assassini di Giulio. Le domande degli italiani si fanno spazientite. «Perché dei rapinatori avrebbero dovuto torturare Giulio?». «Perché avrebbero dovuto conservarne i documenti?». «Stiamo approfondendo», è la risposta. E poi: «La moglie di uno dei banditi ci ha detto che suo marito aveva litigato con Regeni in strada qualche tempo prima e gli aveva preso il portafogli».
IL VIDEO
Non si capisce dove finisca il dolo e cominci la dabbenaggine. Si sa quando si entra nel grottesco. Quando cioè la delegazione egiziana spiega che fine abbia fatto un video della sera del 25 gennaio recuperato dall’unica telecamera funzionante delle 56 installate nella metropolitana di Dokki. Quel video, ammesso e non concesso riprenda Giulio nel metrò, è sovrascritto da altre immagini. «Bisognerà mandarlo in Germania per una ripulitura», dicono. «È perché non lo avete ancora fatto in due mesi?». «Non c’è stato tempo».
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