by Antonio Tricarico, il manife | 6 Aprile 2016 9:12
La divulgazione dei Panama papers [1]scuote di nuovo l’opinione pubblica mondiale sullo scandalo delle tasse non pagate dai più ricchi, che siano singoli o multinazionali, e mette in difficoltà qualche governo, a cominciare da quello islandese.
Come sempre accade in queste circostanze – dai Swiss Leaks ai Lux Leaks – tanti commentatori si interrogano se il cancro dei paradisi fiscali sarà finalmente estirpato. «Nulla sarà più come prima», dichiarano a caldo i politici, che promettono indagini fino a Panama.
Ma queste frasi le abbiamo già ascoltate ripetutamente sin dal 2009.
Fu proprio allo storico vertice del G20 di Londra nell’aprile di quell’anno, nel pieno della crisi economica e finanziaria mondiale, che i leader che contano nell’economia globale decretarono la fine dei paradisi fiscali producendo una lista nera di giurisdizioni «canaglia».
Lista che però dopo qualche mese si svuotò di nuovo. È stato poi il turno dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – l’Ocse – che con la creazione di un Forum Globale ha promosso nuovi accordi internazionali per lo scambio automatico di informazioni in materia fiscale. Uno standard che il G20 nel 2014 ha poi decretato come globale e quindi da attuare in tutti i paesi negli anni successivi.
A fronte della constatazione che il sistema fiscale su base nazionale è oramai un cimelio storico inadatto per un mondo globalizzato, l’Ocse ha anche lanciato il progetto contro l’erosione dell’imponibile e lo spostamento dei profitti delle multinazionali. La Banca mondiale calcola che ogni anno siano circa mille miliardi di dollari i profitti delle corporation che sfuggono alla tassazione lì dove i servizi o i beni vengono prodotti e venduti. Tutto ciò provoca danni consistenti soprattutto nei paesi più poveri e in quelli cosiddetti in via di sviluppo.
Da questo altro processo è nato un decalogo di 15 azioni, che vari governi attueranno.
Dopo questo fior fiore di impegni e una rinnovata cooperazione internazionale, per davvero nulla sarà più come prima?
I Panama papers[2] ci dicono altro. Ossia che la geografia dei paradisi fiscali è forse cambiata, anche in seguito alle timide azioni di alcuni governi, ma che queste giurisdizioni sono vive e vegete e attraggono ancora migliaia di miliardi di dollari di capitali.
L’autorevole e indipendente Tax Justice Network[3] li stima tra i 21mila e i 32mila miliardi. Di questi, minimo 7.600 sarebbero di proprietà di soli individui ricchi – quelli principalmente sbugiardati dalle ultime rivelazioni, come dai Swiss Leaksin precedenza.
È noto da tempo alle autorità di mezzo mondo come Panama sia un paradiso fiscale nodale per il riciclaggio dei proventi del narcotraffico latino-americano e per l’elusione fiscale di molti ricchi e di società multinazionali presenti nelle Americhe.
Ma Panama è recentemente diventata una meta sempre più ambita per chi cerca di pagare meno tasse, o semplicemente di nascondere con maggior sicurezza i propri patrimoni all’estero. Il Paese è infatti tra le varie giurisdizioni che ancora resistono all’obbligo di rendere disponibili le informazioni sui patrimoni depositati in banche o società di comodo ad autorità in altre giurisdizioni. Per esempio Panama deve ancora avviare il secondo stadio della peer review dell’Ocse, dopo un tira e molla di alcuni anni per riuscire a superare il primo esame.
A oggi solo quattro giurisdizioni al mondo non hanno preso ancora alcun un impegno per lo scambio automatico delle informazioni – uno scambio che in ogni caso non avverrebbe in maniera pubblica. Tra questi recidivi della segretezza guarda un po’ c’è Panama, accompagnata da Vanuatu, Nauru e il Bahrein.
A Panama non è difficile aprire una società di comodo. Stesso discorso per gli altri «paradisi» come, tra gli altri, le Mauritius, che seguono offshore la crescita delle economie asiatiche. Basta per l’appunto utilizzare i servizi di società specializzate – quali la Mossack Fonseca, appena finita nell’occhio del ciclone – e quindi trovare dei prestanome che nascondano l’identità dei beneficiari ultimi, ossia i veri proprietari.
La segretezza societaria e bancaria garantita dal paradiso fiscale, anche prima dello stesso regime fiscale agevolato, fa il resto.
In diversi si tirano su pensando che gli inquirenti e le agenzie delle entrate di Italia e altrove questa volta non lasceranno cadere la cosa.
Solo se però si troverà il modo di ottenere anche prove certe dalle autorità panamensi riguardo ai patrimoni nascosti al fisco nostrano.
E su questo il governo Renzi un esame di coscienza se lo dovrebbe fare. Il ministro Pier Carlo Padoan sbandiera la voluntary disclosure[4] che sta finalmente muovendo molti cittadini italiani a dichiarare quanto portato in Svizzera in passato. Ma non in molti oggi ricordano che lo stesso governo lo scorso anno ha di fatto depenalizzato l’elusione fiscale introducendo nell’ambito della maxi delega fiscale l’istituto dell’abuso del diritto.
Insomma, in gran parte dei casi i ricchi che eludono a Panama potranno sanare la propria situazione con pene amministrative e rischiano oramai ben poco penalmente. Un incentivo non da poco a continuare ad eludere scegliendo il prossimo paradiso fiscale che resiste» alle nuove regole internazionali.
Anche l’Unione europea sul tema specifico non è da meno in quanto a ipocrisia.
Nel 2015 Bruxelles ha compilato una lista nera di 30 paradisi fiscali – anche questa frutto di una complessa media tra le liste dei singoli paesi membri. E tra tutti spicca senza dubbio Panama.
Il prossimo 10 aprile è annunciata la pubblicazione del nuovo pacchetto di misure fiscali della Commissione Juncker – che da tempo si sente in dovere di rispondere allo scandalo Lux Leaks, che ha visto il coinvolgimento proprio del suo presidente subito dopo la sua nomina.
La proposta di direttiva è già stata svelata dai media internazionali. Ancora una volta la Commissione ha ceduto alle lobby e non chiederà che la tanto attesa rendicontazione paese per paese dei bilanci delle multinazionali – inclusi ricavi, profitti e tasse pagate in ogni giurisdizione ben oltre gli attuali bilanci aggregati – sia pubblica e obbligatoria per ogni impresa, europea e non e di qualsiasi taglia essa sia.
La pubblicizzazione per tutti sarebbe il vero deterrente contro l’elusione e non avremmo allora più bisogno dei leaks. Ma per il momento tutto rischia di restare amaramente come prima.
* L’autore fa parte di Re:Common[5]
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