by FRANCESCA CAFERRI, la Repubblica | 21 Marzo 2016 9:35
«UN COLPO di proporzioni storiche ai diritti umani». Amnesty International usa termini durissimi per condannare l’accordo appena siglato fra Unione europea e Turchia sulla gestione della crisi del rifugiati. John Dalhuisen, direttore dell’organizzazione per l’Europa e l’Asia centrale, spiega perché.
Cosa c’è che non va in questo accordo?
«Molte cose. La prima è l’idea stessa che ne è alla base, ovvero che la Turchia possa essere un luogo sicuro per i rifugiati: stiamo parlando di un paese che in questa materia non rispetta né le leggi internazionali né gli standard europei. Per diverse ragioni: prima di tutto, perché non esiste un sistema davvero funzionale per ottenere lo status di rifugiato. Possiamo contare sulle dita di poche mani gli iracheni e gli afgani che, ben prima dell’inizio della crisi siriana, sono riusciti a ottenere lo status di rifugiato in Turchia dopo anni di attesa. In secondo luogo, non considererei sicuro un luogo dove oggi migliaia di bambini siriani, per prendere questo come standard, non possono andare a scuola. In terzo luogo ci sono centinaia di siriani che sono stati respinti al confine dalla Turchia, rimandati indietro verso le zone di provenienza, dove c’è la guerra».
Che soluzioni alternative avrebbero potuto esserci, secondo voi?
«Riguardo alla Turchia, è necessario che la Ue usi tutta la sua influenza perché questo paese ampli in tempi rapidi lo spazio di protezione per i rifugiati: servono norme migliori, ma anche più garanzie in termini reali, quando queste persone si trovano a chiedere assistenza o asilo. Parlando invece dei membri Ue, è necessario insistere sul principio della solidarietà obbligatoria. Questa crisi non riguarda pochi paesi: tutti devono farsene carico tramite i programmi di smistamento dei rifugiati».
Questo tentativo è stato già fatto però: e non ha funzionato.
«Nel lungo periodo il dibattito pubblico è cruciale: i cittadini europei devono capire, e qui una grossa responsabilità è dei media, che o da questa crisi si esce insieme o l’idea stessa di Europa cade a pezzi. Nel breve periodo è chiaro che di fronte al muro dei paesi dell’Est, spetterebbe a poche nazioni fare il lavoro maggiore: penso a Germania, Olanda, Francia e ai paesi scandinavi, oltre che a quelli direttamente coinvolti dagli sbarchi. È stato così anche negli anni Novanta, quando dai Balcani arrivò un numero di persone ben più alto di quello che vediamo giungere ora. E furono accolti ».
Cosa c’è di diverso tra l’Europa di allora e quella di oggi?
«Era un’Europa pre-11 settembre, meno spaventata. Un’Europa ottimista, non ancora travolta dalla crisi economica. Oggi molta gente pensa che stiamo ammettendo delle persone fondamentalmente diverse da noi, che non sono assimilabili, che arrivano per cambiare il nostro modo di vivere. È un pensiero che porta alla crescita dei populismi».
Proprio questo è uno degli elementi chiave per capire l’accordo con la Turchia: secondo molti leader è necessario fermare i profughi per fermare il populismo. È un’idea sbagliata?
«Non diciamo che le cose siano semplici. Ma l’Europa sta mettendo in gioco la sua anima. Accogliere queste persone oggi costa molto ed è difficile: lo sappiamo benissimo. Ma se non lo faremo fra 15-20 anni ci guarderemo indietro e ci chiederemo come abbiamo potuto lasciare che questo accadesse. La politica non può arretrare di fronte al sentimento populista: la Merkel e pochi altri hanno provato a spingere una visione europea basata sui valori comuni, tanti altri hanno ceduto il passo».
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