Tripoli, milizie contro l’arrivo del premier
L’aspettavano dal cielo, come una benedizione o una maledizione. È arrivato dal mare, come un condottiero o un naufrago. In nave. Fayez Serraj ci ha messo tre mesi e mezzo a ricevere la nomina dalla comunità internazionale e a formare due volte la lista dei ministri e a raccogliere il coraggio che serviva, ma alla fine del lungo inverno libico la crisi a qualcosa approda. A un molo di Tripoli: «Proclamo da qui l’entrata in carica del governo d’accordo nazionale», ha dichiarato Serraj dalla base navale Abu Seta, poco fuori città, l’unica sede praticabile dopo che il Consiglio di presidenza a sostegno del nuovo governo aveva dovuto scartare nell’ordine l’aeroporto di Mitiga (troppo bombardato), il complesso turistico di Jamzur che usava già l’Onu (troppo indifeso) e un albergo già utilizzato dal Congresso nazionale libico (troppo simbolico). Mossa decisiva o fallimentare, si vedrà presto. Il premier ha navigato dodici ore su un’imbarcazione militare, l’Assaddada. In compagnia di sette dei suoi 18 ministri e viceministri. Salpando dal porto tunisino di Sfax e seguendo una rotta più lunga, per aggirare tutti i possibili blocchi di chi non lo voleva lì: gli uomini di Khalifa Gweil che tengono in piedi il governo non riconosciuto di Tripoli e che ieri mattina hanno sparato cannonate sull’aeroporto, temendo un atterraggio a sorpresa; l’esercito libico del generale Khalifa Haftar, che da settimane sta boicottando l’unità nazionale sia coi suoi deputati a Tobruk, sia con la fronda di due membri del Consiglio di presidenza. «Nessuna forza straniera ha partecipato all’operazione», s’è sentito in dovere di precisare il capo della sicurezza di Serraj, Abdel Rahman al Tawil: «Le forze della Marina libica sono riuscite a condurre a termine quest’operazione con successo e ora ci coordiniamo con le altre milizie che ci sostengono per organizzare un apparato di difesa».
Il rischio che la guerra civile riesploda nelle strade della capitale è evidente: già in serata, la tensione era molto alta nella capitale, dove in serata si sentivano gli spari, e il governo non riconosciuto s’appellava a «tutti i rivoluzionari perché si schierino contro questo gruppo d’intrusi, che infiammerà la situazione a Tripoli e c’imporrà la tutela internazionale». Quasi un ultimatum: «O Serraj si consegna alle autorità, o torna a Tunisi», ha minacciato Gweil, avvertendo che il premier sarà ritenuto «pienamente responsabile del suo ingresso illegale» (e perciò punibile). Dagli Usa il segretario di Stato John Kerry ha ammonito: «Occasione storica da non perdere».L’aspirante governatore della nuova Libia se l’aspettava: «Ci sono sfide davanti a noi, dall’unità dei libici al superamento delle divisioni. È sui giovani che dobbiamo scommettere per il futuro». Gli serviranno anche i militari: la scorta di Serraj è ufficialmente affidata alle brigate 14 e 23, di Tripoli e di Misurata.
Ma sui social si scrive che dietro il blitz navale ci sono gl’italiani. Del resto, l’insediamento d’un esecutivo a Tripoli — precondizione necessaria a chiedere un intervento militare internazionale — era quel che l’Onu, l’Ue e il governo italiano caldeggiavano da tempo: «Ci auguriamo che il governo Serraj possa ora lavorare nell’interesse della Libia e del popolo libico», è il sostegno di Matteo Renzi. Gl’interessi però sono troppi, e pochi coincidono.
Francesco Battistini
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