A dire il vero non è proprio quella che desiderano i bambini la Shujayea che sta rinascendo poco alla volta. Da alcuni mesi grazie all’arrivo di fondi internazionali e arabi (il Qatar in particolare) e ai finanziamenti ricevuti da un buon numero di famiglie che hanno avuto la casa distrutta dai bombardamenti aerei e dalle cannonate, e grazie alla rimozione del 79% delle macerie fatta dall’Undp e da alcune Ong (anche straniere) che hanno lavorato con le municipalità, i palestinesi di Shujayea hanno cominciato a darsi un tetto. Si lavora in fretta, l’urbanistica è una materia abbastanza sconosciuta da queste parti. Però è difficile dare torto a chi aspetta da troppo tempo. Le promesse di miliardi di dollari fatte alla conferenza dei donatori al Cairo nell’autunno del 2014 e mantenute solo in parte, le forti restrizioni imposte all’ingresso a Gaza dei materiali per l’edilizia che solo da qualche mese Israele ha cominciato ad allentare, hanno spinto tante famiglie a prendere l’iniziativa. «Anche la mia famiglia ha ricevuto una piccola somma dal Qatar. Qui siamo tutti muratori e la casa abbiamo deciso di costruircela noi. Siamo stanchi di vivere nei rifugi, la vita è già difficile a casa nostra», dice Amer al Helo, 25 anni, impegnato ad impastare la calce. Anche l’Italia sta dando il suo contributo. «Il nostro finanziamento è di oltre 16 milioni di euro ed è mirato a ridare una casa in tempi ragionevolmente brevi a 28mila palestinesi nella zona di al Nada, a Beit Hanun, non lontano dal valico di Erez», riferisce Vicenzo Racalbuto, direttore dell’ufficio di Gerusalemme dell’Agenzia Italiana della Cooperazione allo Sviluppo. Il progetto, al quale partecipano anche la società italiana “Studioazue” (Architettura sostenibile) e l’associazione palestinese “Dar”, prevede inoltre la redazione del piano regolatore della zona e la ricostruzione, a Gaza city, dell’Italian Mall, un edificio di 17 piani distrutto dall’aviazione israeliana negli ultimi giorni di “Margine Protettivo”, quando furono prese di mira le “torri” di Gaza. Alla fine della guerra oltre a distruzioni immense e a una massa enorme di sfollati interni, si contarono tra i palestinesi oltre 2.200 morti e più di 10.000 feriti. I morti israeliani furono circa 70, quasi tutti soldati.
Servono le case qui a Shujayea e in tutta la Striscia per accogliere decine migliaia di persone che ad un anno e mezzo dall’offensiva israeliana “Margine Protettivo” vivono in alloggi di fortuna, a casa di parenti, in tende, in case prefabbricate, in abitazioni affittate con contributi delle agenzie umanitarie e ancora in qualche edificio scolastico. Sono 88.849: 24.104 uomini, 20.331 donne e 44.414 bambini e ragazzi, secondo l’ultimo rapporto pubblicato da Ocha, l’ufficio di coordinamento delle attività umanitarie dell’Onu. A Shujayea, tra le aree più devastate di Gaza assieme a Rafah e Khuzaa, bombe e cannonate nel 2014 distrussero completamente 670 edifici, altri 608 furono danneggiati gravemente, 576 danneggiati in parte e 1800 in modo limitato.
Tutto cominciò alle 23 del 19 luglio, quando Israele diede inizio all’offensiva di terra contro Gaza dopo quasi due settimane di bombardamenti aerei. Sostenendo che l’ala militare di Hamas aveva sparato 140 razzi da Shujayea, i comandi israeliani entrarono nel sobborgo dopo aver sganciato volantini che invitavano la popolazione a fuggire. Molte famiglie però non seppero nulla di quell’avvertimento, anche a causa della mancanza di energia elettrica che limitava le comunicazioni. All’inizio la Brigata Golani non incontrò particolare resistenza da parte dei combattenti palestinesi. Poi gli uomini scelti di Hamas, quelli delle Brigate “Ezzedin al Qassam”, evidenziarono ottime capacità di combattimento che colsero di sorpresa gli israeliani. Si dimostrarono ben addestrati soprattutto nell’uso dei razzi anticarro. Fino al punto da colpire e far saltare in aria, proprio nella zona della moschea “Tawfiq”, un veicolo corazzato uccidendo i 7 soldati a bordo. I resti di uno di questi, Oron Shaul, assieme a quelli di un altro soldato, Hadar Goldin, ucciso a Rafah, sono ancora nelle mani del movimento islamico. La reazione delle forze armate israeliane fu devastante. Secondo fonti del Pentagono, citate da al Jazeera, quella notte fino al giorno successivo entrarono in azione 258 pezzi di artiglieria che spararono circa 7.000 colpi ad alto potenziale sulle case di Shujayea. Una pioggia di fuoco alla quale partecipò anche l’aviazione. Le vie Nazaz, Shaath e Beltaji si trasformarono in un inferno. Il servizio di pronto soccorso palestinese registrò in quelle ore almeno 200 richieste di aiuto. Le ambulanze tentarono di entrare, quasi sempre senza successo, talvolta a costo della vita di autisti e paramedici. Sotto i bombardamenti migliaia di civili si misero in fuga, tra urla e scene di panico e morte. Secondo fonti di Gaza i morti palestinesi furono 120 di cui un terzo donne e bambini, quasi 300 i feriti. Le famiglie Ayyad, Helo, Sheikh Khalil e Jamal furono decimate. Gli israeliani in quelle ore ebbero 13 soldati uccisi e 56 feriti.
I fratellini Hatem e Ahmad continuano, assieme ai loro amici, a giocare e a “costruire” la Shujayea che vorrebbero. E le agenzie umanitarie internazionali proseguono (lentamente) i progetti di ricostruzione e riabilitazione muovendosi a fatica tra le restrizioni israeliane all’ingresso dei materiali e al boicottaggio reciproco che le due leadership palestinesi rivali, Fatah e Hamas, si fanno dal 2007 incuranti dei danni che provocano alla popolazione di Gaza. Alcuni Paesi arabi cominciano a dare aiuti finanziari concreti. Ma è ancora poco per la Striscia devastata dall’offensiva del 2014, senza infrastrutture, senza acqua, senza lavoro per i suoi abitanti, sotto blocco israeliano da dieci anni. Ed il mondo intanto dimentica la questione palestinese.