“Regime di torturatori” ecco il libro-denuncia su cui lavorava Regeni
C’è una traccia non manipolabile che documenta più e meglio di qualsiasi testimonianza o ricordo la ricerca cui Giulio Regeni stava lavorando al Cairo. Il suo oggetto, le sue coordinate, la sua cornice scientifica e politica. E dunque le ragioni per cui quella ricerca abbia finito con il risultare intollerabile agli occhi del Regime e abbia finito per costargli la vita. È un saggio in lingua inglese, Egypt’s Long Revolution (la lunga rivoluzione dell’Egitto), pubblicato nell’autunno del 2014 dall’editore Taylor and Francis group e firmato da Maha Abdelrahman, la supervisor di Giulio alla Cambridge University. Quel libro era il punto di partenza della ricerca di dottorato di Giulio e, nelle intenzioni, anche il possibile approdo, dal momento che il suo lavoro al Cairo avrebbe potuto contribuire al suo aggiornamento.
A posteriori, è una lettura per certi versi raggelante. Perché in quelle pagine, nella scelta del linguaggio, è la denuncia di un Regime e delle sue pratiche di costante violazione dei diritti umani, della centralità delle Forze armate e dei Servizi segreti nella vita politica del Paese, del Termidoro e Restaurazione seguite alla Rivoluzione di piazza Tahrir con l’offensiva portata al cuore dei movimenti che quella Rivoluzione avevano reso possibile. Di più: perché in quelle pagine sono ragionevolmente indicati, con inconsapevole preveggenza, mandanti ed esecutori dell’omicidio di Giulio. Si legge nell’incipit: «Questo libro analizza le nuove forme di mobilitazione politica nate in Egitto in risposta alle crescenti proteste contro le politiche autoritarie e le deteriorate condizioni di vita figlie di politiche neo-liberiste e di un capitalismo clientelare ». L’arco temporale della ricerca copre i dieci anni precedenti la Rivoluzione del 2011 e i tre che ne sono seguiti. Per individuarne le costanti sociali e politiche, ma, soprattutto, «i protagonisti ignorati», quelli con cui Giulio avrebbe appunto interagito nei suoi sei mesi di “ricerca partecipata”. E questo in una cornice di analisi «gramsciana », cui Giulio si richiamava. Scrive la Abdelrahman: «Nella narrazione mainstream fatta propria dai media occidentali, dall’elite politica egiziana, dalle istituzioni globali e persino da alcuni attivisti egiziani, i 18 giorni di piazza Tahrir sono stati raccontati come una pacifica protesta condotta dalla classe media, tecnologicamente alfabetizzata, e dalla gioventù urbana. E questo per accreditare la logica conseguenza che il dopo Mubarak sarebbe stata una transizione costruita su un’economia di mercato e “democratiche” elezioni. In questa narrativa, è assente il ruolo svolto da larghe fette della popolazione egiziana: lavoratori, agricoltori, proletariato urbano».
Non è difficile immaginare quale effetto potesse avere un approccio di ricerca di questo tipo agli occhi paranoici del Regime. Non è soprattutto difficile immaginare come suonassero due passaggi cruciali del saggio. Il primo. «L’uso della tortura in Egitto — si legge a pagina 18 — non è una novità (…) La tortura è stata regolarmente utilizzata come metodo di interrogatorio. Spesso lo scopo era ottenere confessioni, prima ancora che informazioni. Le prigioni egiziane erano e sono tutt’oggi piene di detenuti che, sotto l’insostenibile peso della tortura, hanno confessato crimini che probabilmente non hanno mai commesso (…) È una pratica che non si è mai interrotta (…) Dovendo definire i metodi dei Servizi segreti egiziani, l’ex agente della Cia Robert Baer, ha detto: “Se vuoi che dei detenuti siano sottoposti a un interrogatorio come si deve, li consegni alla Giordania. Se vuoi che vengano torturati, li spedisci in Siria. Se li vuoi far sparire per non vederli mai più, li dai all’Egitto” ».
Il secondo: «Per sostenere il fabbisogno di un sistema del terrore in piena espansione, il Ministero dell’Interno egiziano ha cominciato a dare in outsourcing il lavoro sporco. In una cornice di crescente impunità, ha dato vita a una nuova “forza di polizia”: i baltagya, i teppisti. Sono criminali comuni, normalmente con precedenti penali e conosciuti alla polizia, pagati per mettere in riga e dare lezioni a cittadini comuni, in cambio di impunità nelle loro attività criminali, in genere il traffico di droga. Il lavoro dei baltagya si è andato allargando, finendo per includere l’intimidazione degli elettori, il pestaggio dei sospettati e degli attivisti politici, violenze sessuali, provocazioni in manifestazioni di piazza. Del resto, la loro capacità di infiltrazione in pressoché ogni gruppo li rende invisibili anche alle normali forze di polizia».
Già, i baltagya. Tra le ipotesi investigative affacciate dal Ministero dell’Interno egiziano — «l’incidente stradale», «il delitto a sfondo omosessuale», «la vendetta per droga », «l’atto di terrorismo» — questa, ad oggi, è proprio quella che manca.
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