Quanto costa Erdogan all’economia turca?

by Chiara Cruciati, il manifesto | 16 Marzo 2016 8:49

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Chi gioca con il fuoco, finisce per bruciarsi. E per bruciare miliardi di dollari. Per il bellicoso presidente Erdogan il fuoco su cui ha sacrificato la stabilità dell’economia interna è una strategia regionale e internazionale fondata sull’attacco camuffato da difesa. Non sempre brandire lo strumento militare dentro e fuori i confini nazionali giova, soprattutto se viene usato per intaccare la rinnovata supremazia russa.

Dal 2011 la politica di Ankara in Medio Oriente ha avuto come stella polare il tentativo di assumere il ruolo di guida regionale. Per questo Erdogan ha sacrificato anni di buone relazioni con il presidente siriano Assad, intessuto rapporti di cooperazione con le petromonarchie del Golfo e sacrificato il negoziato con il Pkk in nome del sogno di rifondare qualcosa di simile all’impero ottomano.

Ma ha fallito. La Turchia di oggi è un paese devastato dall’autoritarismo interno e dalle conseguenze economiche della frattura con la Russia. Mosca ha reagito con sprezzo alle provocazioni di Ankara, che hanno raggiunto il loro apice con l’abbattimento di un jet al confine turco-russo: sono state imposte restrizioni sui cittadini turchi in ingresso in Russia e sulle compagnie turche attive nel paese, mentre venivano cancellati centinaia di contratti di appalto e ridotti i voli delle società aeree turche.

Erdogan ha provato a mettere una pezza almeno nel settore energetico: per coprire il gap lasciato dal gas russo (che copriva il 60% del fabbisogno interno) e per non subire troppo gli effetti dello stralcio del progetto Turkish Stream, conduttura che avrebbe collegato l’Ucraina all’Europa, Ankara si è gettata su Israele e Kurdistan iracheno.

Ma limitare i danni negli altri settori economici è un altro paio di maniche. Se nel 2013 il valore dell’export turco in Russia aveva raggiungo i 7 miliardi di dollari (il 4,6% del totale), nel 2015 è crollato sotto i 4 e continua rapidamente a ridursi.

Ad arrancare sono soprattutto due settori, agricoltura e turismo. Nella provincia orientale di Antalya, rinomata meta turistica ma anche principale area di produzione di frutta e verdura, gli agricoltori lanciano l’allarme: il settore è quasi del tutto fermo a causa della radicale diminuzione delle esportazioni, prima dirette in Russia, Est Europa e nel resto del mondo arabo.

Se fino a poco tempo fa il settore agricolo di Antalya viveva un boom senza precedenti, oggi non restano che le briciole: negli ultimi cinque anni l’esportazione di frutta fresca e verdure aveva superato il miliardo di dollari l’anno, grazie alla coltivazione in serra e agli agrumeti, e aveva raggiunto un livello produttivo di circa 30 milioni di tonnellate, facendo della Turchia il quinto paese al mondo per densità di serre agricole.

Oggi la gallina dalle uova d’oro piange miseria. Come spiega la Camera di Commercio di Kumluca, ad Antalya il settore aveva già subito un collasso a causa dei conflitti regionali che impedivano esportazioni regolari e ora il colpo di grazia arriva per mano delle sanzioni russe: secondo il Ministero dell’Agricoltura, la perdita per l’agricoltura dovuta agli screzi con Mosca ammonta a 764 milioni di dollari. «La produzione è limitata e i prezzi sono alti per la stagione invernale. Ci aspettiamo un calo ancora maggiore nei prossimi mesi. Oggi i contadini vanno avanti con i mutui. Molti hanno debiti con gli intermediari e, se non venderanno i loro prodotti, l’intero settore ne sarà danneggiato».

E poi c’è il turismo, colpito sia dal rapido e drammatico calo dei visitatori russi che dall’instabilità dovuta ai recenti attentati. Che la mano sia dell’Isis, coccolato per mesi dalle autorità turche, o di gruppi separatisti kurdi in cerca di vendetta per la brutale campagna in corso a sud est, è facile cogliere le responsabilità politiche del governo dell’Akp. Eppure il settore è fondamentale: il solo a crescere costantemente, dà lavoro a oltre un milione di persone a cui vanno aggiunti altri milioni di stagionali.

Dopo il divieto di Mosca alla vendita nel proprio territorio di pacchetti turistici turchi e l’embargo contro le compagnie aeree turche, il turismo russo è sceso in pochi mesi del 18,5%, passando da quasi 5 milioni di turisti l’anno a 3,5 milioni nel 2015, provocando una riduzione delle entrate pari al 33%. E il futuro è nero: a gennaio 2016 il calo di turisti russi è stato pari al 81%, quello di tedeschi del 16% e quello degli olandesi del 20%.

La turca Economic Policy Research Foundation calcola che nel 2016 le perdite per l’economia turca a causa delle sanzioni russe supererà gli 8 miliardi di dollari. Il governo prova a correre ai ripari: il premier Davutoglu ha annunciato un pacchetto di 87 milioni di dollari, dopo le funeree aspettative per l’estate che parlano di un meno 40% di turisti sulle spiagge turche e la fuga di otto compagnie di crociera.

Un elemento positivo, però, emerge: l’enorme afflusso di rifugiati siriani nel paese – circa 2,6 milioni di persone – ha dato una spinta all’economia interna. Rifugiati sì, ma anche consumatori, che secondo il governo permetteranno al Pil di aumentare del 4,5%, contro il previsto 4%. Le famiglie siriane comprono pane, farina, frigoriferi e stufe elettriche e in tanti entrano nel mercato del lavoro in nero. Secondo i dati della Turkish Trade Union Confederation, ogni rifugiato spende in media 117 dollari la mese. Sommati, proprio quel 0,5% in più.

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