“Perdono il ragazzo che uccise mio marito ora non stia in cella”

“Perdono il ragazzo che uccise mio marito ora non stia in cella”

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FIRENZE Un rave, cinque anni dopo. Si finisce col rinascere da una ferita, si ripassa magari dalla stessa parola, dallo stesso posto o da un prato che gli somiglia per andare avanti. «Io e Irene abbiamo pensato a un rave per guardare al futuro senza dimenticare il passato» racconta Claudia Francardi, 48 anni, vedova dell’appuntato Antonio Santarelli. Irene è la mamma di Matteo Gorelli, il ragazzo condannato per l’omicidio di Santarelli. Queste due donne hanno organizzato un rave nella zona di Grosseto. Medesima provincia di quell’altra tragica maratona musicale quando era quasi la mattina di Pasquetta, il 25 aprile 2011, e la pattuglia dei carabinieri si trovava vicino a una curva in una strada di campagna, fra Sorano e San Martino di Manciano. Fermarono per un controllo una Renault Clio con alcuni ragazzi a bordo. C’erano tre minorenni e lui, Matteo Gorelli, che allora aveva 19 anni. Patente, libretto e alcol test. Alcol test positivo. I militari stavano compilando il verbale delle contravvenzioni quando vennero aggrediti alle spalle da Matteo con un bastone preso dalla recinzione di un campo. Antonio Santarelli aveva 43 anni, morì dopo un anno di coma e di agonia. L’altro militare, Domenico Marino, 35 anni, se la cavò con gravissime lesioni a un occhio. Matteo ora è in carcere a Bollate, nel milanese, dove sconta una condanna a vent’anni (ergastolo in primo grado). Scrive poesie, dà esami di Scienza dell’educazione seguito dall’università Bicocca. Sua madre, Irene Sisi, con Claudia Francardi ha fondato l’associazione Amicainoabele che «fa del perdono una strada per andare avanti». Il mese prossimo, il 24-25 aprile, organizzano un rave a Rispescia, frazione di Grosseto.

Perché?

«Sarà un rave di sostanza, non di sostanze, lì non si farà uso di droghe e alcol, ma di contenuti, storie, confronti. Si discuterà di mediazione: ci saranno, fra gli altri, l’ex magistrato Gherardo Colombo e Guido Bertagna, il gesuita… quello che ha scritto “Il libro dell’incontro” fra gli ex della lotta armata e i familiari delle vittime. Ci sarà la musica dei 99 Posse che piace a molti ragazzi dei centri sociali, noi vogliamo parlare a tutti… soprattutto ai giovani».

Come si fa a perdonare chi ti ha ucciso una persona cara? Lei quando ha cominciato?

«Si deve perdonare, il rancore ti condanna sempre all’istante del passato. Io ho cominciato a perdonare vivendo prima in pieno il mio dolore e tutta la rabbia. Irene mi scrisse una lettera, quando la lessi decisi subito di incontrarla e di invitarla all’ospedale di Montecatone, vicino a Imola, dove Antonio era ricoverato in coma vegetativo. Irene voleva vedere tutto, voleva essere gli occhi di suo figlio che all’epoca era in carcere a Grosseto ».

Cosa vi siete dette?

«Che la ferita era comune, le nostre vite erano indissolubilmente collegate dal 25 aprile 2011, da quell’enorme dolore. Da allora il dialogo è continuo, però non sempre viene capito».

In che senso?

«Troviamo a volte critiche e insulti sul web, anche di recente per quest’ultima iniziativa. Noi andiamo avanti. Penso che il perdono mi abbia ridato dignità. Davanti alla perdita di una persona che ami, ti ritrovi completamente nuda. Il perdono ti rimette addosso qualche vestito, puoi tornare a uscire per strada».

È vero che ha detto che Matteo non dovrebbe stare in carcere?

«Per come è organizzato, oggi il carcere non lascia spazio all’affettività e al recupero. Ho detto che in comunità il dialogo fra me e lui sarebbe stato più facile ».

Lei ha un figlio di 17 anni: lui condivide queste scelte?

«Sì, condivide ciò che faccio. Del resto io continuo negli ideali di Antonio. Perché quella mattina fermò Matteo e lo stava multando? Per dargli un insegnamento, per dirgli “ragazzo, non è quella la strada”. Io e Irene pensiamo sia importante andare fra i giovani, nelle scuole a dialogare, spiegare che è meglio parlare piuttosto che tenersi dentro un disagio…».

Poi un giorno ha incontrato Matteo, nella comunità di don Mazzi, dopo la condanna di primo grado…

«Non è stato facile, lui non aveva dormito la notte prima, io ero in ansia. Ci siamo guardati, ci siamo abbracciati, nessuno trovava le parole, ma abbiamo trovato subito molte lacrime. Io gli ho raccontato chi era l’uomo che aveva ucciso. Bisogna guardare in faccia le cose per quelle che sono».

Cosa avete in comune lei e la mamma di Matteo?

«La voglia di essere persone nuove, di dialogare e andare avanti. Speriamo vengano tanti giovani a Rispescia, noi li aspettiamo».

 



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