Obama a Cuba “Essere qui è un’occasione per fare la storia”
L’AVANA COME se la democrazia e la libertà avessero una regia inconsapevole e spontanea, il vero benvenuto a Barack Obama che ha riportato l’America a Cuba dopo 88 anni lo hanno dato 68 donne vestite di bianco all’ora della messa grande, ieri mattina. Bianchi i vestiti, le camicette e le maglie, i pantaloni, bianchi i nastri tra i capelli. Sono le Damas de Blanco, mogli, madri e figlie dei dissidenti politici imprigionati dal regime. «Da tredici anni vengono nella mia chiesa», racconta in sacrestia padre Felix.
«PERCHÉ qui siamo sulla Quinta Avenida, e strategicamente tutto il mondo le vede — continua padre Felix —. Ma soprattutto perché Santa Rita è la santa dei casi disperati, quando tutto sembra perduto. È il loro caso, e entrano in chiesa per pregare la Santa e dire che non si arrendono ».
Ci voleva coraggio tredici anni fa a manifestare contro il regime. Oggi non c’è nemmeno una divisa di polizia in chiesa, soltanto uomini in borghese dei servizi mescolati ai fedeli della domenica che fanno la fila nella navata centrale per la comunione. Ma l’arrivo di Obama ha trasformato la domenica delle Damas in un appuntamento speciale, facendo da calamita per le televisioni di tutto il mondo schierate sul sagrato a riprendere le parole della ragazza leader, Yanile, 37 anni, urlate come uno slogan e ripetute da tutte: «Obama, abbiamo un sogno / Cuba senza i Castro». Attorno alle Damas, mentre la messa è ancora in corso, si sono raccolti i ragazzi di Todos Marchamos con uno striscione che invoca i diritti umani. «Vogliamo una cosa sola, libertà anche a Cuba — dice Antonio Rodiles, 44 anni — . Libertà economica, politica, di espressione. Senza, non siamo niente».
Il regime può controllare tutto, ma non l’effetto riverbero che la visita ha nel piccolo cortocircuito tra la dissidenza dell’isola e il mondo. Un effetto moltiplicatore, naturale e quasi involontario, dunque imprevedibile. Quello di Raúl (che ieri non è andato all’aeroporto ad accogliere l’ospite inviando il suo ministro degli Esteri) è una sorta di azzardo obbligato, inevitabile. Deve uscire dall’isolamento, ha bisogno che finisca l’embargo, ma teme che l’arrivo del presidente americano funzioni come un grimaldello nella corazza cubana, squarciandola per spalancarla. Per questo il giornale del partito, Granma, ha prima pubblicato in seconda pagina una biografia burocratica di Obama, e poi in prima pagina lo ha ammonito: se Washington vuole davvero aiutare il popolo di Cuba, come dice, tolga il blocco. E in ogni caso nessuno potrà pretendere che per normalizzare i rapporti con gli Usa Cuba debba rinunciare «a uno solo dei suoi principi». L’azzardo di Obama è più calcolato: nel lungo negoziato preparatorio della visita ha preteso di poter parlare in pubblico, di andare da solo nella cattedrale, di incontrare oltre a Raúl anche un gruppo di esponenti della società civile, tra cui i primi cuentapropistas, i piccolissimi imprenditori che si sono messi in proprio, speranza più che embrione di mercato nell’isola dove resistono testardi i piani quinquennali. «Il mio viaggio, un’occasione storica di entrare in contatto con la gente di Cuba », ha detto appena sbarcato.
Soprattutto, Obama è arrivato ieri sera fin qui per veder morire il Novecento nel tramonto caraibico, inseguendo l’ultima persistenza di guerra fredda che ha resistito fino ad oggi, dopo la caduta del Muro, la scomparsa dei blocchi, il venir meno delle ideologie e delle utopie. Ecco perché la visita ha un carico simbolico superiore addirittura al significato politico. I protocolli degli archivi diplomatici non aiutano. L’ultimo presidente americano a visitare l’isola, Calvin Coolidge, sbarcò in nave all’Avana da Key West insieme con la moglie Grace il 19 gennaio del 1928, quando gli Usa esercitavano un pesante protettorato sugli affari cubani, economia compresa, e si impadronirono per sempre della baia di Guantanamo. I cannoni d’onore spararono a salve per dare il benvenuto all’ospite ma ci fu un momento di imbarazzo durante il ricevimento offerto dal presidente- dittatore Gerardo Machado y Morales e dalla moglie Elvira, quando un cameriere offrì a Coolidge un cocktail alcolico in pieno protezionismo. Tutti guardarono quel bicchiere di cristallo che si stava avvicinando pieno fino all’orlo di succo di lime, zucchero e soprattutto rum, ben mescolato. Con un capolavoro diplomatico, quando il cameriere spuntò alla sua sinistra il presidente americano si voltò ad osservare un quadro alla parete sulla destra, e quando la coppa gli tornò vicina si girò di schiena per indicare a Machado il panorama dalle finestre. Sembrò non aver visto niente, la virtù americana in visita ai Caraibi era salva.
Più marcata la traccia sovietica. Da quell’ultima curva prima di Plaza de la Revolución dove oggi si sporge la folla per vedere Il Capo dell’Occidente, 27 anni fa passò trionfante l’ultimo imperatore sovietico, Mikhail Gorbaciov. Aveva quasi l’età di Obama, in quell’aprile del 1989, la medesima energia e una popolarità altrettanto forte quando scese con Raissa dal Glasnost One — come era stato ribattezzato l’aereo presidenziale del Cremlino — su una scaletta identica a quella di oggi in un contesto d’onore che sembra immutabile. In realtà nello spazio politico tra le visite dei due imperatori il mondo ha fatto un giro completo, finendo sottosopra: in piedi di fianco all’ospite oggi non ci sarà più Fidel in divisa militare, cinturone e scarponi ma Raúl in giacca e cravatta, gli Stati Uniti non sono più un nemico ma un partner, i dollari si preparano a invadere l’isola da cui i rubli (8 miliardi di aiuti all’anno) si sono ritirati da tempo e soprattutto l’Urss non esiste più. Nel 1974 Leonid Breznev sbarcò all’Avana come il padrone di metà del mondo, quindici anni dopo Gorbaciov arrivò senza sapere ancora che sarebbe stato l’ultimo Segretario Generale e Cuba gli tributò il classico omaggio socialista, con due ali di folla ai lati dei 25 chilometri tra l’aeroporto e la città vecchia. Lo percorse in piedi su una vecchia Ciajka aperta, con Fidel che gli sollevava il braccio in segno di trionfo per il comunismo imperiale e il socialismo tropicale uniti nell’inquebrantable amistad, prima di mandare platealmente al diavolo davanti al Parlamento l’invito disperato di Gorbaciov a riformare il socialismo per poterlo salvare: «Cuba non ha avuto Stalin, dunque non ha bisogno di nessuna perestrojka » spiegò Fidel lasciando Gorbaciov solo e sconfitto in mezzo al socialismo cubano ideologicamente intatto. Con la televisione rivoluzionaria di Stato che fece il resto, rubando un fuorionda casuale del Segretario Generale che prima di incontrare le autorità dell’isola estraeva un pettine dalla tasca interna della giacca e si pettinava in fretta con un gesto mai visto e involontariamente post-imperiale.
Si dice all’Avana che ci sia il divieto per i cubani di sventolare bandiere americane al passaggio del presidente Usa ma si capirà soltanto oggi, alla prova dei fatti, visto che persino gli esuli cubani a Miami, contrari alla visita perché rischia di allungare la vita alla dittatura, ammettono che Obama oggi è la figura più popolare a Cuba, più del Papa e certo più di Lenin. Così Raúl, il Castro superstite, lo accoglie con prudenza e orgoglio. Strade ripulite dove passa il corteo presidenziale, lo stadio Latinoamericano tirato a lucido per l’incontro di baseball tra la nazionale cubana e i Tampa Bay Ray, i poveri nascosti, i teloni del restauro pronti a cadere domani per mostrare la facciata del Gran Teatro. Ma i veri segni sono altri, e si moltiplicano. Tre giorni fa è arrivato all’Avana il primo pacco postale spedito per via aerea dagli Stati Uniti dopo più di 50 anni e a inaugurare lo scambio diretto di corrispondenza c’era anche la risposta di Obama, firmata a mano, a Ileana Yarza, che lo aveva invitato con una lettera a passare dal suo caffè durante la visita. Intanto Casa Hemingway riceve una donazione di 500 mila dollari dalla società americana Caterpillar, e soprattutto il regime, proprio mentre arriva il presidente americano, ha appena autorizzato sette dissidenti a uscire dal Paese e poi a rientrare all’Avana.
Ma il restauro più simbolico è appena avvenuto in Plaza de Armas nella città vecchia, dov’era morta prematuramente, vicino alle colonne bianche del Templete, la più grande ceiba dell’Avana, l’albero sacro dell’isola carico nella sua chioma di leggende, arbol de misterio. Era al Templete dal 1959, proprio nel luogo dove la leggenda dice che nel 1519 venne fondata la città e poiché nella ceiba — rispettata persino dal fulmini — abitano i morti, gli spiriti degli antenati e tutti i santi, i curiosi si chiedevano come interpretare quella scomparsa e la ferita nel paesaggio della città vecchia, tra i venditori di libri. Così il governo ha provveduto, i botanici hanno scelto, gli operai hanno scavato per un giorno intero con pala e piccone e una nuova magnifica ceiba è stata trapiantata da Las Terrazas nel buco innaffiato del Templete, insieme con 60 metri cubi di terra fertile. Tutto è come prima, nell’estetica castrista ma anche nella superstizione caraibica, visto che sotto la ceiba si celebravano i passaggi di potere tra i Capi, e qualcuno cominciava a parlare di cambio d’epoca, con gli dei cubani che proprio nei giorni di Obama «finalmente si muovono» e «stanno parlando ».
Obama è andato come prima tappa dal Dio dei cristiani, visitando ieri sera appena arrivato il cardinal Ortega nella spettacolare piazza della Cattedrale, dove all’angolo la santera sensitiva prevede il futuro leggendo le carte cubane e le mani di tutti. A quell’ora le Damas de Blanco se ne erano andate tentando di tornare a casa, «anzi a casa di qualche amica — dice Yanile — perché in queste ore è meglio evitare visite della polizia segreta a domicilio». Ma è stato inutile perché la polizia in una retata furibonda dopo la manifestazione ne ha arrestate quasi cinquanta. Prima di andarsene, avevano parlato in gruppo, a voce alta, con la statua di Santa Rita, abogada de lo imposible. L’hanno pregata invano, scongiurata, e infine strattonata, come si fa a Cuba: « Dime, Santa, no me vas a ayudar tu? A consolar tu? ».
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