La prima sconfitta di Erdogan nella sua battaglia contro la libertà
ISTANBUL PER i giornalisti imputati è stato un trionfo, per il presidente censore è stato un affronto. Nella sua guerra contro la libertà di stampa il potere ha subito ieri una sconfitta sotto gli occhi degli osservatori internazionali, dei diplomatici occidentali presenti in tribunale per controllare come l’alleato turco, candidato all’Unione europea, rispetta lo stato di diritto. Per Recep Tayyip Erdogan non è stata una giornata gloriosa: da un punto di vista democratico la sua immagine di leader politico ha subito un’ulteriore ferita. L’intemperanza l’ha condotto a creare un Tribunale, designando giudici e procuratore, al fine di annullare una decisione della Corte costituzionale. Decisione che lui stesso ha già pubblicamente condannato perché ha fatto uscire dal carcere i giornalisti imputati, mentre lui li voleva detenuti e sotto la minaccia dell’ergastolo, vista la pesantezza delle imputazioni. I giudici e il procuratore, nominati da lui, dovrebbero rinviare in carcere i giornalisti. L’avrebbero fatto volentieri ieri, ma la manifestazione davanti al Palazzo di giustizia e la protesta in aula hanno fatto rinviare tutto al primo aprile quando riprenderà il processo. Come capo dello Stato Erdogan è andato ben al di là dei suoi poteri, dicono gli oppositori.
E una manciata di loro, una decina di deputati, presenti in aula, hanno denunciato i suoi abusi. I rappresentanti ecologisti e pro curdi del partito liberale, e del partito socialdemocratico, appoggiati da un folto gruppo di avvocati, hanno rifiutato di andarsene quando i giudici hanno deciso di proseguire l’udienza a porte chiuse («trattandosi di segreti di Stato»). Gli stessi deputati hanno fatto anche da scudo ai giornalisti imputati temendo che venissero arrestati. I toni erano quelli di una pacifica ma decisa rivolta.
Davanti al Palazzo di giustizia c’era una folla agitata, oscillante tra la collera e la festa. La festa era riservata agli accusati. La collera si è scaricata sul governo. L’indignazione si è manifestata con slogan ripetuti e severi. Le televisioni si sono ben guardate dal dare risalto a quelle immagini e se hanno osato l’hanno fatto con discrezione. Lo si capisce. L’avvenimento aveva un netto risvolto politico ed è destinato a pesare sull’agitata situazione del paese. Esso vive il cruento conflitto interno con i curdi; sente la vicina guerra in Siria, di cui accoglie tre milioni di profughi; non è più confortato dalla crescita economica; ed è spesso sconcertato dallo stile presidenziale. La Turchia, porta dell’Europa, in un momento in cui l’Europa è assediata da problemi angosciosi, è ancora ben ferma sui suoi cardini. Ma è sottoposta a spallate che la mettono a dura prova.
Quello di ieri, davanti e dentro il Palazzo di giustizia, era un episodio della guerra contro la libertà di stampa in corso da tempo. Era in gioco la credibilità democratica del governo turco, con il quale l’Unione Europea ha appena concluso un accordo sul problema dei migranti. Accordo contestato da molti nelle capitali occidentali per la scarsa affidabilità dell’attuale esecutivo di Ankara. Quel che è accaduto al Palazzo di giustizia moltiplica le perplessità, anche se la collaborazione della Turchia resta preziosa. La sua posizione è strategica: è un saldo bastione in un ’area terremotata. È destinato a restarlo? Nell’aula, dove si svolgeva l’udienza, c’erano appunto numerosi diplomatici europei, tra i quali l’ambasciatore tedesco e i consoli generali d’Italia e di Francia. Rappresentavano una giuria silenziosa ma non di scarso rilievo.
Can Dundar, direttore di Cumhuriyet (La Repubblica), e Erdem Gul, capo della redazione di Ankara del quotidiano d’opposizione, liberale di sinistra e soprattutto laico, sono accusati da mesi, con una requisitoria di 473 pagine, di spionaggio, di divulgazione di segreti di Stato, di tentativo di colpo di Stato e di assistenza a un gruppo terroristico. Imputazioni da prigione a vita dovute a fatti che riguardano articoli in cui si rivelava, con la prova di video, che i servizi segreti turchi (MIT) avevano lasciato passare carichi d’armi destinati ai jihadisti in Siria. La Turchia membro anziano della Nato, alleato negli Stati Uniti nella coalizione contro i jihadisti dello “stato islamico” e di Al Nusra, emanazione di Al Qaeda, riforniva dunque quelli che ufficialmente combatteva. L’avversione per i curdi nemici dei jihadisti potrebbe essere una spiegazione. Nemici su un fronte, i jihadisti diventavano complici su un altro fronte. La situazione è ancor più paradossale se si pensa che i curdi sono al tempo stesso la preziosa fanteria dell’aviazione americana.
La notizia diffusa da Cumhuriyet era ed è incandescente per il governo turco. Lo dimostrava ieri in aula un avvocato di parte civile rappresentante Recep Tayyip Erdogan, allora primo ministro e oggi presidente della Repubblica. Non è frequente che un capo dello Stato si impegni a tal punto in un processo che è in sostanza sulla libertà di stampa. Ma la posta in gioco è in questo caso importante. Smentire il giornale socialdemocratico significa rassicurare anche gli alleati.
Erdogan giustifica il fatto di essere parte civile con l’accusa di tentativo di colpo di Stato basata sui rapporti che gli imputati laici avrebbero avuto con un suo acerrimo nemico, un tempo stretto alleato, il religioso Fethullah Gulen. Gulen vive negli Stati Uniti ma dirige una fitta rete di interessi in Turchia, tramite una vasta setta e numerose attività economiche. Erdogan ha preso di mira i beni di Fethullah Gulen, in particolare i giornali. Il nemico d’America ha radici nella società musulmana turca su cui si basa la forza politica del presidente, pure lui rigoroso osservante dei precetti dell’Islam.
I due giornalisti di Cumhuriyet sono dei laici, dei kemalisti (la loro redazione è piena di ritratti di Ataturk, il fondatore della Repubblica), ed è quindi assai improbabile una loro complicità con il religioso Gulen. Il direttore, Can Dundar, era noto e rispettato nel paese, benché il suo quotidiano abbia una limitata tiratura (52 mila copie). È diventato famoso da quando è stato arrestato, insieme a Gul il 26 novembre. Entrambi sono stati rinchiusi nel carcere di Silivri, a una abbondante ora da Istanbul. Erdogan non ha nascosto il suo rancore. Di Dundar ha detto alla televisione: «Non lo mollerò, lo inseguirò e gli farò pagare la fattura». In febbraio la Corte costituzionale ha deciso la scarcerazione dei due giornalisti ritenendo che non erano usciti dai confini della libertà di stampa. Ma Erdogan li vuole rimettere in prigione.
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