Il Quantitative easing di Draghi, alla fine tanto denaro per nulla
Il Quantitative easing (QE) di Draghi compie un anno e gli ultimi dati sull’inflazione in Europa ne certificano senz’appello il fallimento.
Cos’è successo? Molto semplicemente che l’immissione nel sistema di quasi 800 miliardi di euro (1.140 miliardi fino a settembre 2016), attraverso l’acquisto di titoli di Stato ed altri asset finanziari (obbligazioni garantite e prodotti di cartolarizzazioni), non ha finora minimamente smosso l’economia dell’eurozona, favorendo la tanto agognata ripresa dei consumi.
Gli ultimi dati forniti da Istat ed Eurostat confermano che l’Europa, dopo nove mesi, è tornata in deflazione (-0,2% a febbraio), con l’Italia che fa registrare addirittura un’inflazione negativa per un 0,2% su base mensile e di uno 0,3% su base annua. Si allontana definitivamente, quindi, l’obiettivo di portare l’inflazione europea vicina al 2%, in linea con lo statuto della Bce.
Era prevedibile? Certamente. Anche mettendo dentro una variabile come quella del prezzo del greggio sotto i 30 dollari al barile, che, indubbiamente, ha inciso sulla discesa dei prezzi di molti beni e servizi, a cominciare dai prodotti energetici.
A parte l’evidenza storica e la letteratura, infatti, di per sé sufficienti a dimostrare che politiche monetarie espansive in assenza di politiche fiscali di segno corrispondente possono rivelarsi del tutto inutili (e a volte anche nocive) a fini reflattivi ed anti-ciclici, bastava il caso statunitense, per altro più volte evocato come modello, per rendersi conto che queste misure, oltre ad una discesa dei tassi di interesse e ad un deprezzamento della moneta unica, non avrebbero mai determinato, da sole, una ripresa dell’inflazione, quindi della domanda interna e dell’occupazione.
Negli Stati Uniti il successo del Quantitative easing è stato determinato, oltre che dalle particolari caratteristiche dell’economia (la maggior parte delle imprese americane si finanziano sul mercato), dal concorso della spesa in deficit dello Stato, che è arrivata a toccare il 12% del Pil.
Un vero abominio nell’Europa del 3% e del pareggio di bilancio in termini strutturali. Di contro, un chiaro esempio di quanto sia insostenibile l’attuale modello di integrazione europea, basato sulla trans-nazionalizzazione delle politiche monetarie e la sterilizzazione di quelle fiscali, ancora formalmente in capo agli Stati nazionali.
Ma se gli attuali vincoli di bilancio, e la stessa architettura del potere in ambito comunitario, erano da ostacolo ad una combinazione proficua tra politiche monetarie e politiche fiscali, perché si è deciso di “bruciare” così tanti miliardi nell’acquisto — sul mercato secondario — di titoli di Stato?
Il dubbio che l’intera operazione sia stata concepita per dare altro ossigeno ad un sistema bancario tutt’ora in sofferenza, affidandosi alla fortuna per le sue (improbabili) ricadute sull’economia reale, è, a ben vedere, più che fondato.
Prendiamo il caso italiano. Tra il 2011 e il 2012, cioè all’apice della crisi finanziaria, grazie alla liquidità a basso costo di cui hanno beneficiato con i “Piani di rifinanziamento a lungo termine” (Ltro e TLtro), i nostri istituti di credito hanno fatto incetta di titoli di Stato, guadagnando sullo spread tra il tasso di interesse praticato dalla Bce e quello gravante, in quel momento, sui Buoni del Tesoro.
Risultato: il 65% degli oltre 1,7 miliardi di euro di titoli di Stato in circolazione è finito nei portafogli delle banche italiane, contro il 50% del 2010, col rischio che un crollo dei prezzi di questi bond (Btp, essenzialmente) potrebbe dar luogo, vista la loro elevata concentrazione, a vere e proprie voragini nei bilanci delle stesse, dunque ad una nuova crisi sistemica.
In questo quadro, il Quantitative easing sta avendo senz’altro un merito: alleggerire il fardello dei titoli di Stato gravante sui conti delle banche, garantendo alle stesse denaro fresco, da utilizzare per restituire alla Bce i soldi con cui a suo tempo gli stessi titoli di Stato erano stati acquistati. In altri termini, possiamo dire che la Bce sta comprando gli stessi titoli che le banche acquistarono con i suoi soldi (concessi al tasso simbolico dell’1%) tra il 2011 ed il 2012 — in coincidenza, peraltro, della scadenza del prestito (3 anni) -, sperando che una parte della nuova liquidità possa incanalarsi, attraverso il credito, nell’economia reale.
Speranza vana, se dopo un anno siamo ancora al punto di partenza. Ma di autocritica nemmeno a parlarne ai piani alti di Eurotower. Anzi. Il prossimo 10 marzo il Consiglio della Bce potrebbe addirittura decidere di portare da 60 ad 80 miliardi gli acquisti mensili di titoli di Stato, aggiungendo al paniere altre tipologie di obbligazioni.
Non sono escluse nemmeno altre aste di liquidità a tassi agevolati (molto agevolati) per le banche, sul modello dei già richiamati Ltro e Tltro. D’altronde, a chi dovrebbe dar conto una banca centrale totalmente indipendente dal potere politico?
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