Il Colle e quell’iter «rispettato» per l’invio delle forze speciali
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La crisi libica sta evolvendo in modo pericoloso e caotico: mentre ne misuri l’andamento già cambia. E, problema supplementare, di confusione non ce n’è solo fra Tripoli e Tobruk, ma anche da noi, politicamente parlando. Per esempio su quello che può fare, o non fare, il presidente della Repubblica a proposito di un intervento militare non ancora cominciato e contestato a priori. Un falso dilemma cui qualcuno lega alcune subordinate. Fino a che punto spetta a lui il comando delle Forze armate? Chi, tra Colle, Palazzo Chigi e Parlamento, decide di mandare in guerra il Paese? Ci siamo già, in guerra?
Ecco il tormentone che stupiva il Quirinale ieri (giorno che, per inciso, coincideva con l’anniversario dell’uccisione del funzionario dei nostri servizi segreti, Nicola Calipari, a Baghdad). Stupiva in quanto le polemiche sulla prospettiva di una missione in Libia e che per il momento si concentrano sull’uso delle forze speciali, ignorano quanto è stato da tempo votato alle Camere. Così, quando si recrimina che la scelta di affiancare nuclei dei corpi scelti ai nostri agenti dei servizi ormai sul campo sia stata fatta «bypassando» il Parlamento, si dice una cosa sbagliata e, se poi a dirla è un politico, deliberatamente fuorviante.
Perché — osservano dallo staff presidenziale — la legge che ha rifinanziato le missioni all’estero ha previsto, nel decreto applicativo, proprio questo. Assieme alla non estensione del codice penale di guerra, a garanzia di uno status eccezionale, per i soldati che saranno spediti sul suolo libico con il compito di estendere l’azione di sorveglianza e copertura affidata ai servizi o di svolgere ruoli propedeutici (e, va da sé, senza preavviso e per ciò stesso segrete) all’impiego dello strumento militare su più larga scala, ammesso che debba scattare.
Tutto questo è stato deciso e ratificato, tenendo conto degli interessi nazionali oltre che della comunità internazionale. Non c’è discordanza tra Mattarella e il governo, e il quadro giuridico-istituzionale risulta pertanto in ordine. Per il resto, e il resto riguarda l’ipotesi di «mettere gli stivali sul terreno», con un intervento armato dei 19 Paesi disponibili a formare una coalizione per stabilizzare la Libia e sradicare i terroristi dell’Isis, le condizioni poste per l’Italia dal capo dello Stato — anche davanti a Barack Obama, un mese fa — e condivise dal premier sono rimaste le stesse, e non le hanno cambiate le ipotesi di una rapida accelerazione. Cioè un mandato dell’Onu, che si è pronunciata in tal senso fin dallo scorso dicembre. E, a definitiva legittimazione di tutto, la richiesta ad hoc di un governo libico il più possibile unitario, anche se è scontato che, se e quando nascerà, sarà comunque fragile.
Difficile che un nostro intervento possa coinvolgere 3.000 o addirittura 5.000 soldati. Una forza armata di quella entità potrebbe infatti imporre il disimpegno di uno dei contingenti all’estero che l’Italia ha attualmente (a scelta tra quelli in Afghanistan o in Libano, per capirci). Una logica di prudenza vuole insomma che sul nostro contributo si contempli una diversa variante, in questa fase tutelata dal segreto.
È lo stesso riserbo che circonda le opzioni analizzate dal Consiglio supremo di difesa, tenutosi al Quirinale una decina di giorni fa. E qui entrano in gioco le prerogative del presidente, che a norma di Costituzione è anche capo delle Forze armate. Discorso complesso. A parte il tentativo di Francesco Cossiga nell’ultima parte del suo settennato, per dare maggior spessore all’articolo 87 della Carta, si sa che il «proprium» del presidente è di vedersi sottoporre le regole d’ingaggio. E su questo ha, sì, una posizione di comando in quanto organo imparziale. Per il resto valgono i principi generali costituzionali, che lo calano in una Repubblica parlamentare, per cui in caso di guerra coordina, ascolta e, attraverso la sua azione informale, cerca di tener unite le varie componenti, anche governative, seguendo le politiche di difesa del Paese .
Ecco il tormentone che stupiva il Quirinale ieri (giorno che, per inciso, coincideva con l’anniversario dell’uccisione del funzionario dei nostri servizi segreti, Nicola Calipari, a Baghdad). Stupiva in quanto le polemiche sulla prospettiva di una missione in Libia e che per il momento si concentrano sull’uso delle forze speciali, ignorano quanto è stato da tempo votato alle Camere. Così, quando si recrimina che la scelta di affiancare nuclei dei corpi scelti ai nostri agenti dei servizi ormai sul campo sia stata fatta «bypassando» il Parlamento, si dice una cosa sbagliata e, se poi a dirla è un politico, deliberatamente fuorviante.
Perché — osservano dallo staff presidenziale — la legge che ha rifinanziato le missioni all’estero ha previsto, nel decreto applicativo, proprio questo. Assieme alla non estensione del codice penale di guerra, a garanzia di uno status eccezionale, per i soldati che saranno spediti sul suolo libico con il compito di estendere l’azione di sorveglianza e copertura affidata ai servizi o di svolgere ruoli propedeutici (e, va da sé, senza preavviso e per ciò stesso segrete) all’impiego dello strumento militare su più larga scala, ammesso che debba scattare.
Tutto questo è stato deciso e ratificato, tenendo conto degli interessi nazionali oltre che della comunità internazionale. Non c’è discordanza tra Mattarella e il governo, e il quadro giuridico-istituzionale risulta pertanto in ordine. Per il resto, e il resto riguarda l’ipotesi di «mettere gli stivali sul terreno», con un intervento armato dei 19 Paesi disponibili a formare una coalizione per stabilizzare la Libia e sradicare i terroristi dell’Isis, le condizioni poste per l’Italia dal capo dello Stato — anche davanti a Barack Obama, un mese fa — e condivise dal premier sono rimaste le stesse, e non le hanno cambiate le ipotesi di una rapida accelerazione. Cioè un mandato dell’Onu, che si è pronunciata in tal senso fin dallo scorso dicembre. E, a definitiva legittimazione di tutto, la richiesta ad hoc di un governo libico il più possibile unitario, anche se è scontato che, se e quando nascerà, sarà comunque fragile.
Difficile che un nostro intervento possa coinvolgere 3.000 o addirittura 5.000 soldati. Una forza armata di quella entità potrebbe infatti imporre il disimpegno di uno dei contingenti all’estero che l’Italia ha attualmente (a scelta tra quelli in Afghanistan o in Libano, per capirci). Una logica di prudenza vuole insomma che sul nostro contributo si contempli una diversa variante, in questa fase tutelata dal segreto.
È lo stesso riserbo che circonda le opzioni analizzate dal Consiglio supremo di difesa, tenutosi al Quirinale una decina di giorni fa. E qui entrano in gioco le prerogative del presidente, che a norma di Costituzione è anche capo delle Forze armate. Discorso complesso. A parte il tentativo di Francesco Cossiga nell’ultima parte del suo settennato, per dare maggior spessore all’articolo 87 della Carta, si sa che il «proprium» del presidente è di vedersi sottoporre le regole d’ingaggio. E su questo ha, sì, una posizione di comando in quanto organo imparziale. Per il resto valgono i principi generali costituzionali, che lo calano in una Repubblica parlamentare, per cui in caso di guerra coordina, ascolta e, attraverso la sua azione informale, cerca di tener unite le varie componenti, anche governative, seguendo le politiche di difesa del Paese .
Marzio Breda
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