Così il popolo della jihad cresce nelle nostre città

by RENZO GUOLO, la Repubblica | 24 Marzo 2016 9:37

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L’ampiezza della rete di sostegno agli attentatori di Parigi e Bruxelles fa sorgere una domanda: quanti sono gli jihadisti in Europa, tra effettivi e irregolari? I numeri si possono solo dedurre. A partire da quelli sui foreign fighters continentali. In quattro anni gli europei partiti per Siria e Iraq sono stati circa cinquemila. Due terzi vengono da quattro paesi: Francia, Gran Bretagna, Germania e Belgio. Molti di loro sono rimasti uccisi in combattimento, altri sono rientrati. Solo per restare ai paesi colpiti di recente: i francesi partiti per la Siria sono 1700, dei quali 250 rientrati; i belgi sono 470, dei quali 120 hanno guadagnato la via del ritorno. In totale i foreign fighters di ritorno sono circa un migliaio in tutta Europa, una decina in Italia. Sicuramente l’area dei simpatizzanti è più vasta e si allarga a decine di migliaia di persone.

Il radicalisimo islamico è diventato, infatti, il collettore di un risentimento esteso, che alligna nelle periferie delle grandi città europee, divenuto in pochi anni da prepolitico a iperpolitico. Non è casuale che molti dei foreign fighters europei o dei militanti jihadisti che vivono nel Vecchio Continente, non abbiano precedenti esperienze politiche o religiose; che abbiano vissuto come giovani deislamizzati, rifiutando la religione ritualistica e popolare trasmessa dai padri, dai quali li divide una profonda frattura generazionale. E che, poi, abbiano, riscoperto l’islam nella sua declinazione radicale e jihadista. Quello che li spinge non è un discorso religioso — nemmeno nella versione premiale del “paradiso dei martiri” — ma un’ideologia totalizzante.

L’islam radicale è apparso loro come l’ultima grande narrazione antagonista capace di dare identità, la sola disponibile per opporsi a una realtà che disprezzano e, a loro dire, li disprezza. Forse l’ultima ideologia rivoluzionaria a disposizione dopo che il secolo breve ha liquidato, in immani drammi collettivi, le utopie novecentesche. Capace di sovvertire rapporti sociali e realtà statuali. Appunto, un’ultima utopia. Utopia che a noi appare sanguinaria e regressiva ma agli occhi di chi non si è mai sentito parte della realtà in cui è nato o vissuto, è vista come strumento di riscatto.

L’ideologia radicale precede la nascita dell’Is, così come Al Qaeda. Ma contrariamente a quest’ultima organizzazione, il gruppo di Al Baghdadi ha saputo indicare un’orizzonte che va oltre la prospettiva della clandestinizzazione della politica. Il suo “capolavoro” è stato togliere dall’acronimo le ultime due lettere, divenendo solo Stato islamico. Non più localizzato in Iraq e in Siria ma con ambizioni e proiezioni universali: coronate nell’autoproclamazione e nella rifondazione del Califfato. Mossa che nemmeno Osama Bin Laden all’apogeo della sua potenza aveva osato. L’assalto al cielo del gruppo di Al Baghdadi ha trovato il consenso dei molti decisi a combattere per la causa ma non in una logica di mera clandestinizzazione. È proprio quel “ farsi Stato”, quel dare forma concreta all’utopia, che ha attratto in Siria decine di migliaia di combattenti e centinaia di giovani donne decise a costruire il nuovo ordine islamista; e offerto una sponda politica “ideale” ai giovani radicalizzati che hanno coniugato la nuova identità militante con la decisione di combattere la guerra in Europa. È con questa realtà diffusa che dobbiamo fare i conti.

Il fenomeno, infatti, non è destinato a esaurirsi a breve. Nemmeno con la distruzione del Califfato in Siria e Iraq. Anzi, è prevedibile che la conclusione di quell’esperienza statuale, induca lo jihadismo a rifondarla altrove. In Libia o in qualche area del Sahel: il vuoto è lo spazio per eccellenza dell’utopia. Recuperando, come già si è visto nell’ultimo anno, l’originaria impostazione qaedista: concentrare gli sforzi sul Nemico lontano, portando il jihad in Occidente. In una sintesi politica che appare già oggi drammatica per la nostra vita quotidiana. Una sfida che per essere vinta dall’Europa deve tenere insieme la dimensione della sicurezza e la battaglia culturale. Altrimenti, la deriva proseguirà e quei numeri così preoccupanti si moltiplicheranno.

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