(…) Non hai mai sentito il peso di un’eventuale sconfitta, cioè di non farcela? Con una materia così sfuggente come la scrittura, insomma, come ti sei trovato? Il dover scrivere? Il doverlo fare?
«Lo provo adesso il peso, ma prima no. Ho sempre scritto abbastanza sicuro di me, anche perché la critica mi ha appoggiato, perché facevo leggere queste cose ai miei amici che me le lodavano, perché le vendite andavano bene, perché l’editore era soddisfatto. Non mi sono quasi mai sentito uno scrittore perdente, anzi sono tuttora molto stupito del fatto di esserci riuscito, di avercela fatta anche senza la grinta».
Come un fatto naturale…
«È un fenomeno al di fuori di me. Io scrivo un libro e poi il libro va per la sua strada, decolla, segue itinerari complicati, intricati. Se questo è un uomo ha un itinerario talmente intricato che non riesco a seguirlo e continua ancora adesso (…)».
Però, si direbbe che questa nuova professione abbia stravolto qualcosa di te, in te. Non hai detto tu stesso di esserti sentito bifronte, almeno finché hai fatto i due mestieri?
«Certo».
(…) Come facevi praticamente?
«Tagliavo il tempo in due: c’era il tempo della fabbrica in cui la letteratura non c’entrava per niente, e poi il dopo: le lettere a cui rispondevo, le sere passate a scrivere».
(…) A volte nelle tue opere questo tuo limite si avverte. Come se esistesse una sorta di barriera al di là della quale tu non riesci ad andare.
«Non voglio andare».
Lo dico nel modo meno tortuoso: come se tu mancassi
di cordialità.
«Non lo so, non me ne rendo ben conto».
Una sorta di resistenza…
«Certamente c’è. Ce n’è traccia – questo te lo posso anche dire – nelle prime pagine di Se questo è un uomo. Si accenna a una donna, io questa donna l’ho corteggiata a modo mio, mettendola molto in imbarazzo, perché si rendeva conto della mia estrema timidezza e irresolutezza. Siamo stati catturati insieme, anzi in un modo abbastanza banale. Eravamo nascosti nel Col di Joux, siamo scesi insieme per non so quale missione politica e ci è stata offerta l’ospitalità a valle per non risalire di notte. Noi abbiamo rifiutato, non mi ricordo bene per quale ragione, e siamo saliti di notte fino al Col di Joux e dopo cinque ore, dopo una notte, siamo stati arrestati e io ho portato sovente un senso di colpa».
Per avere favorito involontariamente l’arresto?
«In più questa donna ha tentato il suicidio per non farsi deportare, si è tagliata le vene, poi se le è fatte ricucire. Insomma, io ho portato il peso di questa morte – perché poi è morta – fino a quando non ho incontrato la mia attuale moglie. Per me era proprio una situazione disperata, essere innamorato di una persona che non c’era più, in più averne provocato la fine e questo penso che si senta… Forse se fossi stato meno inibito con lei, se fossimo scappati insieme, se avessimo fatto l’amore… Io di queste cose non ero capace ».
(…) L’incontro con tua moglie, ad esempio, lo puoi raccontare?
«Certo, mi va di raccontarlo. È stata una questione, direi, di secondi, più che di minuti. La conoscevo già, era un’amica di mia sorella».
La conoscevi da prima della deportazione?
«Sì, da prima della deportazione, una delle tante amicizie di mia sorella. Siamo stati a ballare insieme e, nel giro di pochi secondi, ci siamo accorti di una mutazione profonda, improvvisa, la caduta di questa barriera di inibizione, grazie a lei soprattutto, che mi ha fatto parlare, che è stata paziente con me, è stata comprensiva, è stata affettuosa e nel giro di pochi minuti… ».
Dove eravate andati a ballare? Te lo ricordi?
«Non mi ricordo più, probabilmente alla scuola ebraica».
(…)Ed è stata una cosa improvvisa e sconvolgente.
«Sì, improvvisa e sconvolgente ».
(…) E ti ha reso euforico.
«Mi ha reso euforico, realizzato, aperto, allegro, pieno di voglia di lavorare, una doppia vittoria, mi sentivo il padrone del mondo».
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L’ANTICIPAZIONE
Primo Levi. Io che vi parlo.
Conversazione con Giovanni Tesio, Einaudi, euro 12