Da un angolo riparato dalla pioggia con un telone di plastica verde, riecheggiano le parole dell’ultimo successo della cantante etiope. D’un tratto il silenzio, si provano gli ultimi accordi e il concerto ha inizio. Bastano un basso, una chitarra elettrica e un microfono per mettere in movimento quest’umanità abbandonata a se stessa. Sorrisi si alternano ad applausi. Tutti vogliono filmare questa parentesi di umanità per condividerla su Facebook. Ci sono almeno un centinaio di persone. In totale hanno a disposizione 4 bagni chimici e nessuno passa a raccogliere i rifiuti, che si accumulano. «Adesso c’è poca gente ma di notte dormono fino a 500 persone» ci dice Marie-Laure, una signora che abita nel quartiere e che viene a dare una mano quando ha un attimo libero.
Siamo nel nuovo campo di migranti a Parigi. Per il momento le autorità lo tollerano ma le associazioni che difendono i diritti dei migranti temono che sia smantellato presto. Esattamente un anno fa la prefettura di Parigi cominciava una politica di smantellamento di tutti i campi che si erano formati in città. Prima fu sgomberato lo squat de La Chapelle, poi fu la volta del liceo occupato Jean Quarré ed infine Austerlitz e Saint Ouen. Uomini, donne e bambini erano stati ridistribuiti in centri d’accoglienza sparsi per tutta la Francia. «Mi avevano mandato a Verdun – dice Omar, un giovane pakistano – ma non c’era nessuno della mia comunità e non parlo ancora francese». Molti di loro sono stati mandati in località remote dove possono godere di una buona assistenza materiale ma non hanno la possibilità di frequentare le loro comunità.
Nelle ultime settimane è cominciato l’abbattimento della Jungle di Calais, il più grande campo profughi europeo dopo Idomeni, in Grecia. A causa dell’aumento degli attacchi xenofobi e con il peggiorare delle condizioni nella Jungle, a centinaia si sono rimessi in marcia verso il campo di Grande-Synthe, Dunkuerque, il Belgio o Parigi.
«Ma perché Parigi?» chiediamo ad Assan, 32enne di Aleppo: «A Calais nelle ultime settimane la polizia è diventata sempre più violenta e poi non si riesce più a passare la Manica verso l’Inghilterra; sono tornato a Parigi perché ho deciso di depositare una domanda d’asilo in Francia. Qui potrò continuare a frequentare molti amici e connazionali».
È il momento di Alpha Blondy e dell’afroreggae. Gli etiopi danzano muovendo le spalle di lato, verso l’alto e in basso. I bimbi sorridono. Fateh batte il ritmo coi piedi mentre filma tutto per mostrarlo ai suoi amici che arriveranno più tardi. Un signore sulla quarantina, francese e molto ben vestito, cerca di comunicare con un bambino eritreo. Gli offre delle caramelle e un orsacchiotto. Il bimbo è felice e sorride. Poi comincia ad accarezzarlo e a quel punto interviene la madre, fino ad allora appartata poco lontano. Prende in braccio il figlio, lancia un’occhiata chiara ed espressiva nei confronti dell’uomo e se ne va.
Sono accampati per comunità. Da un lato i sudanesi. Abdullah e molti di loro vengono dal Darfur, regione che ci evoca un conflitto di cui tanto si parla ma dimenticato e sconosciuto. All’altra estremità ci sono afghani e pakistani. Al centro ci sono etiopi ed eritrei. Molti sono i bimbi. Le loro storie sono sempre le stesse. Le loro richieste pure: un po’ di pace ed una vita migliore.
«Se davvero ci tenessero ai loro bambini potrebbero fare una domanda d’asilo in Francia e gli troveremmo una sistemazione» risponde un poliziotto a un’attivista che si lamenta del fatto che lo Stato tolleri che dei bimbi passino le giornate in condizioni simili, al freddo, senza riparo, sdraiati su un materassino, avvolti in coperte e pile, circondati dai rifiuti. «Non fanno la domanda in Francia perché parlano inglese e hanno dei parenti in un altro paese» controbatte l’attivista.
«Che ricorderanno della loro infanzia questi bambini? E che adolescenza difficile per questi ragazzini afghani, che futuro avranno?» si domanda Xavier, un pensionato che è stato attratto dalla musica uscendo dal metrò. «Alla tv vedo centinaia di attivisti e giornalisti prendere d’assalto Idomeni, Calais, le isole della Grecia e il porto del Pireo; perché nessuno viene qui?» si domanda sua moglie.
Dopo qualche tuono e un po’ di grandine esce un grande arcobaleno. Una ragazza racconta a due bimbi afghani la tradizione secondo cui dove finisce un arcobaleno è posto un pentolone pieno d’oro custodito da uno gnomo cattivo. Poi si rivolge a me aggiungendo: «Anche noi occidentali siamo come lo gnomo cattivo che non permette a tutti di beneficiare equamente dei beni comuni, dell’oro del pentolone…».
I due bimbi si guardano negli occhi, si scambiano un sorriso complice, si prendono per mano e cominciano a correre. Hanno deciso di non arrendersi.