Dopo Bruxelles, l’état d’urgence e la realtà materiale del crimine
Sicurezza e terrorismo. Il dibattito seguito agli attacchi di Bruxelles tradisce in primo luogo un problema gigantesco: l’incapacità della sfera pubblica rispetto alla volontà, a parole sbandierata da tutti, di difendere i principi che rendono distinti il nostro sistema politico e la nostra società.
Si direbbe che una settimana di dibattito televisivo raffazzonato su Islam e terrorismo faccia parte del pacchetto completo cui siamo condannati dopo ogni attacco stragista. Si tratta di un loop catodico che sulle pagine di questo giornale abbiamo definito «meta-terrorismo»: la replica non-stop di immagini di attacchi passati unita alla speculazione continua su cellule dormienti e attacchi in preparazione, il tutto animato dall’apparizione politici-surfisti dell’onda emotiva, improbabili inviati che cercano di strappare al musulmano di turno frasi ambigue o rassicuranti sull’atteggiamento della presunta «zona grigia» rispetto ai kamikaze
Sullo sfondo, immagini di panico dopo le bombe, le forze speciali incappucciate, i volti dei terroristi, le strade deserte. In linea con la necessità di preservare il clima di allerta, urgenza ed eccezione – una sorta di palliativo rassicurante al brancolare nel buio della politica – le autorità belghe hanno di fatto bloccato la marcia «contro la paura» che era stata indetta a Bruxelles, lasciando però che un centinaio di nazisti sfilassero per le telecamere davanti al memoriale delle vittime.
Eppure davanti alla rapidità d’innesco pret-à-porter del terrorista suicida, anche il repertorio da destra golpista, con le sue invocazioni di pena di morte e militari per le strade, offre armi ormai spuntate, e deve ripiegare sui biechi istinti da pogrom e tortura dei sospetti – le migliori speranze di reclutamento per Isis e compagnia. Più difficile da decodificare – camuffato dietro l’assenza di lettura politica della minaccia – il lessico dei «sicurocrati» impegnati a mostrarci che stanno agendo, annunciando nuovi sistemi informatici «di formidabile potenza»: nuovi algoritmi che, associando fatti a intenzioni attraverso l’elaborazione dei big data che le nostre vite quotidiane producono (quando acquistiamo un biglietto o interveniamo in un dibattito online) consentiranno di identificare la minaccia prima che sia troppo tardi.
Tale computo consentirebbe di spostare l’azione repressiva sul versante della prevenzione, abilitandola proprio là dove incertezza e allerta sono costanti, e la possibilità non rappresenta più un ostacolo ad agire. Ecco che il politico o il funzionario di turno, a cui una compagnia cyber o un consulente, dopo il consueto lobbying, hanno piazzato il programma top di gamma del momento, sono sgravati di una pesante responsabilità.
Il problema resta però squisitamente politico e si articola su più dimensioni. Partiamo dalla dimensione intra-europea, dove peraltro un consenso univoco tra i diversi ordinamenti nazionali su cosa giuridicamente costituisca «terrorismo» non esiste (così come non esiste per il diritto internazionale): lo stesso ufficio del coordinatore anti-terrorismo europeo, Gilles de Kerchove, manovra fra compiti di mera facilitazione e supporto. La ragione non è tecnica, ma ha piuttosto a che vedere con il nesso profondo che vincola politica, violenza e terrorismo in un mondo in cui non esiste ormai più guerra né regime autoritario in cui il nemico/oppositore non sia etichettato come terrorista.
Il clima da état d’urgence e magnificazione ideologica dell’attacco non permette di focalizzarsi lucidamente sulla realtà materiale del crimine, sul carattere locale della banda criminale che lo ha perpetrato, sulla dimensione di rapporti familiari, di vicinato, di connivenza da quartiere che – bypassando l’ascolto dei sofisticati programmi di raccolta dati – riducono l’entità spettacolare dei tragici eventi di Bruxelles ad una banalità disarmante.
Su questi vicinati, perfettamente incastonati nel tessuto urbano e sociale d’Europa, la politica ha a lungo glissato e continua a glissare. Enfatizzandone il carattere ideologico e religioso – che è tuttavia il pericoloso sfogo congiunturale di un malessere nichilista, per dirla con Olivier Roy, che esisteva ben prima la proclamazione del sedicente Stato Islamico – non facciamo che riprodurne il messaggio, fallendo nell’articolare una risposta che ne delegittimi politicamente l’azione, riducendone i protagonisti a quello che essenzialmente sono, ovvero criminali di quartiere alla ricerca di un adrenalinico senso mistico-salvifico a vite sciupate.
Sulla stessa linea, il prevedibile esito dell’ennesimo vertice straordinario Ue convocato d’urgenza giovedì scorso, ci riporta l’impegno dei 28 paesi membri a scambiarsi più dati (abbiamo forse qualcosa da nasconderci?), un sostanziale accordo sul registro dei passeggeri dei voli e sul pattugliare i confini, soprattutto le coste – notoriamente prese d’assalto da pericolosi terroristi. Insomma, l’ostinato rifiuto di ammettere che la minaccia non si articola affatto nello scarto tra un «dentro» sicuro e un «fuori» insicuro, ma è – ed è sempre stata – una questione articolata internamente. Eppure una connessione tra «dentro» e «fuori» esiste eccome, ed è il secondo aspetto a cui non danno riconoscimento politico i nostri ministri – fermi a contemplare le frontiere criticando «l’Europa che è lenta» (loro che fino a ieri auto-incensavano per aver riportato l’enfasi su «sicurezza nazionale» e «interesse nazionale»).
Il legame tra la sicurezza dell’Europa e l’insicurezza dei vicini europei – alimentata dalle poco utili bombe europee, dal rafforzamento dei legami con i dittatori amici, dall’abbandono della condizionalità democratica nel gestire le relazioni estere, dalla rinuncia a mettere ordine alle alleanze anche dopo gli attacchi di Parigi – non può che alimentare la macchina nichilista che produce cinture esplosive nei vicinati fuori controllo delle nostre città, e questo non può che travolgere – in ultima istanza – le premesse liberal-democratiche dell’Europa stessa.
La direttiva Ue anti-terrorismo, che dovrebbe essere approvata entro giugno, va a toccare meccanismi estremamente delicati per le libertà fondamentali dei cittadini europei, senza prevedere un meccanismo di valutazione del suo impatto. La tanto invocata super-procura europea, se ci si arriverà, non sarà un ufficio tecnico, ma un luogo in cui giustizia e politica si frequenteranno quotidianamente, per il semplice fatto che non agirà in un ordinamento omogeneo. E questi sviluppi si annunciano proprio mentre Idomenei si trasforma nella Guantanamo greca, mentre la Turchia, paese che ha appena incassato un incoraggiamento nel suo percorso di candidato Ue, non solo impone sistematicamente bandi su informazione e internet, ma annuncia modifiche alla propria normativa anti-terrorismo, così da procedere a più ampi criteri di incriminazione atti a tenere sotto ricatto parlamentari, giornalisti, accademici e attivisti.
Il dibattito seguito agli attacchi di Bruxelles tradisce in primo luogo un problema gigantesco: l’incapacità della sfera pubblica rispetto alla volontà, a parole sbandierata da tutti, di difendere i principi che rendono distinti il nostro sistema politico e la nostra società. Davanti all’inevitabilità della minaccia terrorista nell’era della guerra asimmetrica, il nostro apparato politico-mediatico si rivela in tutta la sua vulnerabilità e la sua pochezza. E mentre veicola il proprio attaccamento ai propri valori illudendosi con eccezioni e crisi di passaggio, il sistema politico è già cambiato.
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