L’importanza di Palmira per il destino di Assad

by Chiara Cruciati, il manifesto | 28 Marzo 2016 10:00

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I trofei stavano per essere consegnati ai giocatori, alla fine di un torneo di calcio tra squadre locali. Ma l’apparente normalità di una partita di pallone è stata devastata dalla cintura esplosiva di un kamikaze dello Stato Islamico: almeno 41 i morti, 100 i feriti. Tra le vittime ci sono anche 17 bambini: avevano tra i 10 e i 16 anni. In un video pubblicato online si vede il sindaco, Ahmed Shaker, chiamare a voce alta i nomi dei calciatori. Gli applausi. Poi l’esplosione.

«L’attentatore si è infilato tra la folla e si è avvicinato al centro del campo, si è fatto saltare in aria mentre il sindaco [anche lui tra le vittime, ndr] consegnava il premio», racconta un testimone, il 18enne Ali Nashmi. Nel mirino degli uomini del “califfato” è finito il villaggio di Al-Asriya, vicino la città di Iskandariyah, 40 km a sud di Baghdad.

Mentre l’esercito governativo tenta con fatica di far partire l’operazione per liberare Mosul, l’Isis colpisce intorno alla capitale, a dimostrazione della capacità di infiltrarsi in ogni angolo del paese. Poco dopo dieci kamikaze cercavano di colpire la base militare occidentale di Ein Al-Assad, tra le più grandi in Iraq: l’esercito ha aperto il fuoco uccidendone otto, ma perdendo 18 soldati.

Lo Stato Islamico è sotto pressione, sia in Iraq che in Siria, dalle contemporanee avanzate dei due governi. Ma non è affatto sconfitto, controlla ancora un terzo del territorio in entrambi i paesi. A mancare sono istituzioni statali forti e radicate, rosicchiate da anni di guerra civile, palese in Siria, strisciante in Iraq. A Damasco il presidente Assad resiste alle pressioni esterne, avanzando sul terreno. L’obiettivo è Palmira, la “sposa del deserto”, porta verso oriente e verso una soluzione politica più favorevole di quella immaginata da Occidente e Golfo.

Ieri gli scontri per l’antica città patrimonio Unesco sono proseguiti. Le truppe governative continuano ad avanzare dopo aver liberato i quartieri settentrionali e occidentali. Venerdì, secondo l’agenzia di Stato Sana, il castello di Qalaat Shirkuh è stato raggiunto dai soldati di Assad, immortalati in alcune foto di fronte all’ingresso della struttura, strategica perché in cima ad una collina da cui si può controllare il sito archeologico: da lì, ieri, partivano colpi di artiglieria verso la valle. I media siriani riportavano della liberazione di buona parte di Palmira, nonostante gli scontri con l’Isis siano tuttora in corso.

Assad vuole Palmira, salvagente lanciato in mezzo ad un negoziato che – nonostante l’ottimismo delle Nazioni Unite – resta in standby proprio a causa delle divergenze sul destino del presidente. «Dal punto di vista strategico la perdita di Palmira non stravolgerà i piani dello Stato Islamico – spiega ad Al Jazeera Aymen Jawad al-Tamimi, analista del think tank Middle East Forum – Nel contesto più ampio, la sua perdita potrebbe spingere l’Isis a rafforzare i fronti nel deserto di Homs, per impedire altre avanzate governative. Palmira è molto più importante per il regime, simbolicamente, perché gli permette di presentarsi come il difensore della civiltà contro le barbarie».

Di certo ripulirà la faccia di Damasco che, continuando nelle azioni militari per mangiare territorio al “califfo” al-Baghdadi, si mostra come sola forza – insieme alla kurda Rojava – impegnata contro il terrorismo islamista. La liberazione di Palmira arriverebbe, inoltre, dopo il ritiro ufficiale di buona parte delle truppe russe dal terreno: sebbene nella città siriana i jet di Mosca abbiano aperto la strada alle truppe di Assad con raid continui, la vittoria potrà essere presentata come un punto segnato soprattutto dal governo.

Sul campo non si combatte solo una battaglia tra eserciti e milizie paramilitari, si combatte una battaglia fatta anche di propaganda e visibilità. E se le opposizioni godono della protezione internazionale, questo scontro lo stanno perdendo: a Ginevra l’Hnc, la federazione delle opposizioni nata a Riyadh lo scorso dicembre, non ha mai messo sul tavolo la questione al-Nusra né quella Isis, proponendo soluzioni politiche interne ma senza nominare l’impellente necessità di unire le forze per vincere un nemico in apparenza comune.

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