by FEDERICO RAMPINI, la Repubblica | 26 Marzo 2016 10:02
NEW YORK L’uccisione del numero due dello Stato islamico, il “ministro delle Finanze” al-Qaduli, è stata confermata ieri; pochi giorni prima c’era stata l’eliminazione del “ministro della guerra”, Omar al-Shishani. Due colpi micidiali al gruppo dirigente. Decisivi, oppure no? «Colpire i leader è necessario – commenta il segretario alla Difesa Ashton Carter – ma non è sufficiente. I capi possono essere sostituiti. E lo saranno».
Colpisce la cautela in questi commenti americani. Carter e anche il capo di stato maggiore, generale Joseph Dunford, hanno evitato trionfalismi nell’annunciare la duplice decapitazione ai vertici dell’Is. Pur sottolineando che «in questa fase il momentum, l’impeto della campagna, è tutto dalla nostra parte», i vertici del Pentagono hanno usato toni insolitamente prudenti. Troppe volte in passato si era gridato vittoria, per poi assistere sul campo a improvvisi rovesciamenti, ritorni in forze dello Stato Islamico.
Due altri fattori spiegano l’atteggiamento di Carter e Dunford. Il primo è un paradosso: se l’Is perde terreno in Medio Oriente, questo potrebbe spingere più “foreign fighters” a tornare nei paesi occidentali dai quali partirono, a organizzare attacchi terroristici del tipo di Bruxelles.
Il secondo fattore dietro la prudenza del Pentagono è il riconoscimento (esplicito) che una parte del merito per le sconfitte dell’Is va a due alleati ingombranti: il presidente siriano Bashar al Assad e il suo omologo russo Vladimir Putin.
Resta il fatto che i due “ministri” dello Stato Islamico, al-Qaduli e al-Shishani, sarebbero stati eliminati dalle squadre speciali Usa: corpi molto ridotti (si parla in ambedue i casi di reparti con 50 militari), quelle forze che Obama ha autorizzato a intervenire pur sottolineando che non ci saranno interventi di truppe terrestri tradizionali (“scarponi sul terreno”). In almeno un caso, quello del ministro delle finanze al-Qaduli, il blitz dei reparti speciali sarebbe stato agevolato dalla taglia di 7 milioni di dollari su chiunque fornisse informazioni per la sua cattura. Sì, «la cattura era l’obiettivo più ambito», ha ammesso il generale Dunford. L’uccisione è stata il risultato di un’operazione che ha incontrato più resistenza del previsto.
Le notizie che arrivano dalla Siria e dall’Iraq sono ormai concordanti da alcune settimane, e confermano la valutazione di Barack Obama: «Lo Stato Islamico ha perso il 40% del territorio che controllava ». Dalla regione di Palmira in Siria, a quella di Mosul in Iraq, i rovesciamenti sono sempre possibili ma nelle ultime settimane l’evoluzione è stata sistematicamente favorevole alla coalizione di forze anti-Is.
Un retroscena del Washington Post cita fonti dell’intelligence americana ed anche dell’esercito regolare iracheno a sostegno di questo scenario. Il generale capo dell’antiterrorismo iracheno, Abdul- Ghani al-Assadi, si fa citare dal Washington Post con una descrizione cruda di quel che accade sul terreno: «Non combattono. Mandano auto- bombe e poi scappano. Quando li circondiamo si arrendono, o cercano d’infiltrarsi tra la popolazione. Hanno il morale scosso. Sentiamo le loro conversazioni, intercettiamo le loro comunicazioni. I loro capi li scongiurano di combattere ma loro rispondono che è una causa persa. Si rifiutano di obbedire agli ordini, disertano ». Dove disertano, non è chiaro. Uno dei problemi nasce appunto dal fatto che le sconfitte in Siria o in Iraq possono spingere i disertori a riprendere la strada da cui sono venuti: magari tornando in Francia o in Belgio, se quelli sono i loro paesi di provenienza. Del resto anche in Iraq e in Siria via via che subiscono sconfitte nei combattimenti regolari fra eserciti, i jihadisti dello Stato Islamico tornano a usare con maggiore frequenza le tattiche del terrorismo: autobombe, attentati-suicidi, come quelli che hanno insanguinato Damasco e Baghdad.
Un’altra notizia che giunge dalle aree sotto controllo dello Stato Islamico, è quella riportata dal Wall Street Journal: i conflitti sempre più frequenti tra “foreign fighters” e militanti sunniti locali. La “legione straniera”, secondo le testimonianze raccolte, sarebbe sempre più spesso protagonista di risse e regolamenti di conti. I locali, anche se militanti dello Stato Islamico, si sentirebbero discriminati e sfavoriti, sia nel trattamento economico sia nei ruoli assegnati in combattimento. Più volte i combattenti venuti da fuori avrebbero dimostrato disprezzo e atteggiamenti offensivi verso le tradizioni dei clan tribali del posto.
Obama ha deciso di inserire la lotta all’Is come un tema aggiuntivo nell’agenda del summit nucleare che ospiterà dal 31 marzo a Washington (con la partecipazione anche di Matteo Renzi). E il suo segretario alla Difesa lo precederà a fine aprile a Riad, per compattare la coalizione sunnita guidata dai sauditi.
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