I depistaggi sulla morte di Regeni:“La polizia cercava Giulio dalla fine di dicembre”
IL CAIRO In cinque settimane nessuno ha neppure provato a cercare la verità sull’omicidio di Giulio Regeni. Al contrario, il depistaggio sul movente, i mandanti e gli esecutori, è cominciato appena il cadavere è stato ritrovato. Due diverse testimonianze indicano infatti che nelle ore immediatamente successive al ritrovamento del corpo, la mattina del 3 febbraio, la polizia egiziana si mise al lavoro per confondere le acque. Le persone più vicine a Giulio furono segretamente interrogate nella stazione di polizia di Dokki, dove gli furono chieste con insistenza notizie sulla vita privata di Giulio, sulle sue inclinazioni sessuali. E tutto questo mentre il nostro ambasciatore, Maurizio Massari, veniva tenuto volutamente all’oscuro della morte del ricercatore (lo avrebbe appreso “ufficiosamente” soltanto la sera del 3 da una fonte confidenziale egiziana). Di più. La polizia del Cairo conosceva Giulio Regeni. E lo cercò nella sua abitazione di Dokki senza trovarlo, nel dicembre scorso. Una circostanza ufficialmente smentita nei verbali di interrogatorio dei condomini del palazzo ma confermata a Repubblica da due diverse nuove fonti.
L’INTERROGATORIO NOTTURNO
L’otto febbraio, sull’aereo che lo riporta in Italia, viene “esfiltrato” il suo amico al Cairo. È un ragazzo italiano che ora vuole interrogare la procura di Giza. Lo chiameremo F. ( Repubblica conosce ma non svela l’identità per garantirne la sicurezza) e ha avuto modo di ricostruire, nella testimonianza resa ai nostri investigatori, dettagli cruciali per comprendere cosa è accaduto prima dello scomparsa di Giulio e dopo il ritrovamento del suo cadavere.
- viene convocato la sera del 3 febbraio nella stazione di polizia di Dokki, a qualche centinaio di metri da dove Giulio viveva. F. non sa ancora che il corpo del suo amico è stato ritrovato poche ore prima su un cavalcavia del quartiere 6 ottobre. Ma la polizia egiziana ha urgenza di sentirlo. Lui e tutte le persone a Giulio più vicine. Tra loro anche il professor Gennaro Gervasio.
«Seppi quella sera della morte di Giulio — dice F. ai nostri investigatori in una lunga testimonianza — Me lo comunicarono nella sala d’attesa del commissariato. Mi avevano convocato “per farmi alcune domande”. Mi interrogarono in sei, forse sette. Non c’erano magistrati. Cominciarono a chiedermi di Giulio, dei suoi studi, delle sue relazioni al di fuori della ragazza con cui stava, se facesse uso di sostanze stupefacenti ».
Perché interrogare immediatamente tutti gli amici più vicini a Giulio senza darne avviso al nostro ambasciatore, Maurizio Massari, che il 26 gennaio ne aveva denunciato la scomparsa? Perché non comunicargli ufficialmente che il corpo era già in un obitorio della città, che la polizia già faceva domande, e lasciare che il nostro ambasciatore venisse allertato solo in modo “ufficioso” da una fonte del ministero degli Esteri egiziano? Forse per impedire quello che poi sarebbe accaduto? Che l’ambasciatore vedesse in quali condizioni era il cadavere prima dell’autopsia?
LA RAGAZZA CON IL TELEFONINO
La sensazione è che già in quelle prime ore gli egiziani si muovano per occultare ogni traccia che accrediti il movente politico dell’omicidio. F. è il custode del “segreto” di Giulio. È stato infatti il testimone oculare di quanto accaduto l’11 dicembre in un’assemblea al Cairo alla quale partecipa con Giulio. «Eravamo insieme in una sala con un centinaio di persone — dice — L’assemblea era stata convocata da una Ong che si occupa di diritti dei lavoratori per riunire il fronte dei sindacati indipendenti: in discussione c’era la legge sul pubblico im- piego e c’era da affrontare il nodo delle libertà sindacali. Non si trattava di una riunione particolarmente a rischio. Anzi. La notizia era circolata anche sulla stampa nei giorni precedenti, ed erano presenti anche diversi giornalisti. Giulio cercava materiale per la sua ricerca. Furono registrati tutti gli interventi e al termine fu lui a fare interviste singole. Una cosa però ci inquietò». Prosegue F.: «Giulio si accorse che durante la riunione era stato fotografato da una ragazza egiziana, con un telefonino. Pochi scatti. Strano. Ne parlammo a lungo. Una delle possibilità è che fossero presenti informatori delle forze di sicurezza».
LA VISITA IN CASA
Del resto, come riferiscono due diverse fonti che in quel mese di dicembre ebbero modo di raccogliere le confidenze di un inquilino molto informato del palazzo, la polizia egiziana cercò Giulio nella sua abitazione senza fortuna. In un caso minacciando una perquisizione. Un particolare che nessuno dei testimoni egiziani formalmente sentiti ha voluto confermare. Ma che non sorprende affatto F. «Il giorno della sua scomparsa era il 25 gennaio, anniversario di piazza Tahrir. Bastava uscire di casa per incappare in un controllo. Nelle settimane precedenti c’era stato un clima di tensione e paranoia fortissimo, non solo nei confronti degli attivisti. C’erano stati controlli a tappeto negli appartamenti abitati da stranieri. Temo possa esserci stato un cortocircuito. Nel clima di paranoia e xenofobia è possibile che alcuni corpi, reparti, gruppi, abbiano scambiato Giulio, il suo lavoro, chissà per cosa. Il clima generale è quello. A volte basta essere stranieri e parlare arabo per destare sospetti. Nella retorica ufficiale, spesso, si attribuiscono a spie straniere complotti per sovvertire l’ordine e la stabilità del paese». E invece. «Invece Giulio era semplicemente uno scienziato. Che aveva scelto un metodo di ricerca che si fa sul campo. Era convinto che il lavoro accademico potesse servire per cambiare le cose».
L’ARTICOLO TRADOTTO
L’interrogatorio notturno dei testimoni il 3, la ragazza con il telefonino, le visite in casa della polizia. Ma c’è anche un quarto indizio che accredita il movente politico. Dopo la morte di Giulio e la pubblicazione, il 6 febbraio, con la firma di Regeni sul Manifesto dell’articolo che raccontava l’assemblea dell’11, la polizia egiziana si mette nuovamente in allarme. E torna a fare domande che con la ricerca dei responsabili non hanno nulla a che fare. Ma hanno molto a che vedere con le idee di Giulio. Racconta F.: «Giulio non aveva mai collaborato né era entrato in contatto diretto con il Manifesto.
Quell’articolo lo abbiamo scritto insieme e l’avevo proposto io al giornale con la garanzia dello pseudonimo. Ho saputo che la polizia egiziana ha chiesto ad altri amici comuni di Giulio, dopo la pubblicazione del 6 febbraio, notizie sulla presunta collaborazione di Giulio con il quotidiano».
LE CONTRADDIZIONI DEI PERITI
Nella fretta di vendere agli italiani una morte dal movente che non sta in piedi, gli egiziani lavorano a mano libera anche con l’autopsia. Rispetto a quanto accerterà l’esame effettuato in Italia dal professor Vittorio Fineschi, i medici del Cairo non refertano molte delle lesioni inflitte al ragazzo (a cominciare da una decina di fratture), indicano come avvenute in un’unica soluzione le sevizie e come causa della morte un colpo al cranio che avrebbe provocato un edema cerebrale letale. Non una di queste conclusioni collima con il referto italiano. La causa della morte, per Roma, è infatti nella rottura della prima vertebra cervicale compatibile con una spaventosa torsione del collo. Al contrario, l’edema (che pure l’autopsia di Fineschi ha individuato) non è causa della morte. Ma, significativamente, sarebbe compatibile con la prima inverosimile versione propinata dalle autorità egiziane: l’incidente stradale.
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