Blitz, fuga, riscatto? I due ostaggi liberati all’alba

Blitz, fuga, riscatto? I due ostaggi liberati all’alba

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TRIPOLI Come è davvero avvenuta la liberazione di Filippo Calcagno e Gino Pollicardo? Un blitz, o altro? Erano assieme ai due colleghi di lavoro, Fausto Piano e Salvatore Failla, i cui corpi giacciono al momento crivellati di proiettili nell’obitorio all’ospedale di Sabratha? Oppure l’epilogo felice dei primi e il tragico fato dei secondi seguono itinerari differenti, almeno nelle fasi finali del loro dramma? Le risposte variano con il variare delle fonti, le quali a loro volta cambiano di versione con il cambiare delle circostanze. Tutto quello che ci sentiamo di dire al momento (venerdì sera) è che il puzzle composito dei racconti e la loro contraddittorietà riflettono fedelmente il caos libico.
Nei prossimi giorni, quando i due sopravvissuti avranno modo di parlarci direttamente, avremo probabilmente un quadro molto più chiaro che facilmente smentirà ciò che appare oggi la verità del momento. Una conclusione però si può trarre già adesso: cercando di dare un senso alle informazioni riguardanti i quattro tecnici della Bonatti, rapiti lo scorso luglio presso il terminale di Mellitah, risulta comprensibile quanto sia difficile intervenire in Libia e per la diplomazia internazionale contribuire alla formazione di un governo unitario che combatta la crescente minaccia di Isis su tutto il Paese.
Dopo aver ricontattato fonti vicine alla milizia Rada, che per conto del governo di Tripoli combatte Isis, e soprattutto aver parlato con Hassan Eldewadi, capo del consiglio municipale di Sabratha, assieme a Taher Algribli, suo commissario militare in loco, la nostra versione non muta di molto rispetto a due giorni fa, ma si fa più dettagliata. «I quattro italiani si trovavano in una zona periferica di Sabratha composta di fattorie agricole chiamata Jfara, vicino a quella di Tallil. Mercoledì sera un’operazione delle nostre forze speciali contro una cellula di jihadisti tunisini militanti col Califfato ha portato alla scoperta dei cadaveri dei due italiani tra i morti. È stata una scoperta fatta per caso. Non sapevamo che i due fossero in quel posto», specifica in particolare Algribli. A suo dire, sono poi i jihadisti sopravvissuti (tra almeno 10 morti dei loro) che portano agli altri italiani. «Dagli interrogatori dei prigionieri abbiamo capito che c’erano altri due italiani nella zona. Li abbiamo cercati per due giorni, quindi li abbiamo individuati in un’altra piccola fattoria sulla strada non lontana dal posto del primo scontro a fuoco», aggiunge.
I loro racconti fanno però a pugni con le versioni date più tardi dallo stesso Eldewadi ad altri media italiani e anche al Corriere . In una di esse, afferma addirittura che Calcagno e Pollicardo erano stati separati ormai da tempo dagli altri due compagni. E sarebbero stati nascosti in uno scantinato di Tallil, dove risiede una famiglia di origine marocchina. «Sentivamo parlare in arabo e francese», gli avrebbero detto i due italiani ieri. La storia, per lo meno curiosa, è che circa una settimana fa la cellula di Isis che li custodiva si sarebbe dileguata sotto l’incalzare dell’offensiva di Rada. «Per sette giorni gli italiani non hanno potuto bere o mangiare. Alla fine si sono liberati da soli», aggiunge. Ieri sera ci ha detto che un emissario della Bonatti si sarebbe recato nel commissariato di Sabratha per incontrare i due. Ma il mistero non è affatto chiarito. Infatti Algribli parla invece di «duri scontri» che hanno permesso di liberare i due ostaggi ancora in vita. Un elemento appare invece abbastanza scontato. Non ci sono forze militari o agenti dell’intelligence italiani sul posto. «Da tempo si erano interrotti i negoziati per la liberazione degli ostaggi. E in nessun modo forze speciali o agenti italiani sono presenti a Sabratha», ci hanno ripetuto ieri gli ufficiali vicini a Rada nel quartier generale di Tripoli.
Una conferma indiretta si ritrova tra l’altro nel messaggio scritto a mano su di un biglietto stropicciato che i due appena liberati mostrano ai giornalisti locali (l’immagine è diffusa in rete) in cui — barbe lunghe e volti stremati dalla stanchezza — chiedono «di tornare urgentemente in Italia». Una sorta di appello alle nostre autorità che non sarebbe necessario se fossero presenti sul posto. Appare irrilevante invece l’errore della data, «5 marzo» sul fogliettino. Una comprensibile confusione. Chi non sbaglierebbe il giorno in un frangente simile?
I racconti che arrivano da parte italiana non aiutano a risolvere i misteri. Sin dall’altro ieri dagli ambienti vicini ai nostri servizi d’informazione si insiste sulla possibilità che gli ostaggi siano incappati in uno scontro a fuoco tra Isis e milizie rivali, o addirittura tra gli stessi rapitori, mentre si trovavano in un convoglio. Ma in quali circostanze? Possibile che venissero trasportati in un covo più sicuro verso il deserto, visto che a Sabratha ormai da una decina di giorni trionfa una situazione di semi-guerra? Oppure che si fosse raggiunto finalmente un accordo per il pagamento del riscatto (almeno 12 milioni di euro secondo gli ufficiali del governo a Tripoli) e i rapitori stessero per liberare gli italiani? La versione dei conflitti interni tra milizie del resto non è per nulla da scartare. Il confine tra criminalità comune e militanza jihadista è labile anche tra i simpatizzanti libici di Isis. Ed è parte integrante degli elementi che complicano lo scenario. Oggi le autorità di Tripoli vorrebbero condurre in elicottero i giornalisti a incontrare gli italiani a Sabratha, almeno così affermano. Attendiamo di vedere cosa ci racconteranno. Sempre che nel frattempo non siano già partiti alla volta dell’Italia.
Lorenzo Cremonesi


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