by Leonardo Clausi, il manifesto | 1 Marzo 2016 10:15
LONDRA È stata definita la più grande manifestazione anti nuclearista degli ultimi vent’anni. Circa sessantamila persone sono scese in piazza sabato scorso per gridare il proprio «no» al rinnovo del deterrente nucleare britannico Trident. Con in testa una schiera nutrita di celebrità e personalità politiche, il serpente umano si è snodato dal concentramento a Marble Arch fino al capolinea canonico delle manifestazioni londinesi, la piazza di Trafalgar Square, dove fino al tardo pomeriggio si sono susseguiti gli interventi.
A dargli un peso quasi istituzionale, vista la latitanza ormai ultratrentennale del suo partito da simili iniziative, è stata la presenza del leader laburista Jeremy Corbyn, convinto antinuclearista e tutt’altro che propenso a mettere in soffitta decenni di campagne per il disarmo unilaterale, come invece vorrebbe la componente parlamentare del Labour Party. Che con questa plateale e del tutto inequivocabile presa di posizione, suffragata anche dalla sua vicepresidenza in carica del Campaign for Nuclear Disarmament (Cnd), Corbyn continua a scontentare.
A fianco di Corbyn erano il primo ministro scozzese Nicola Sturgeon e la leader del partito indipendentista gallese Plaid Cymru Leanne Wood, la leader dei verdi Caroline Lucas e Kate Hudson, segretario generale della Cnd. Alla fine del corteo si sono succeduti sul palco a parlare, tra gli altri, Vanessa Redgrave, una vita spesa al servizio di cause sociali, e Tariq Ali. Tra i musicisti, un membro della band Enter Shikari, i Massive Attack e Geoff Barrow dei Portishead, che al momento sta mixando un brano a sostegno della protesta.
Immancabile la reazione piccata della destra laburista. Oltre alle critiche mosse a Corbyn da Neil Kinnock, la cui leadership tutta improntata alla realpolitik preparò il terreno a Tony Blair, non ha tardato a giungere il monito dell’architetto principale del New Labour, Peter Mandelson, che ai microfoni di Bbc 4 ha giurato che il popolo britannico «non è mai stato e non sarà mai per il disarmo unilaterale».
Quei sessantamila sono dunque un fenomeno atipico, un’isola idealista e utopica nell’arcipelago dell’elettorato laburista? Viene legittimo chiederselo, quando il malessere nel paese cresce di fronte alla prospettiva di spendere 183 miliardi di sterline per l’allestimento di quattro sottomarini nucleari la cui obsolescenza accelera a prescindere (i droni stanno mandando in pensione simili tecnologie belliche). Lo stanno capendo anche esponenti moderati di rilievo come Keith Vaz e David Blunkett, quest’ultimo già fedelissimo ministro nei governi Blair, che hanno ultimamente messo in discussione la propria fedeltà incondizionata al deterrente nucleare.
Certo, la questione è spinosa. Un cuneo che spacca il partito dal 1945 e le cui avvisaglie si sono in gran parte già manifestate con il voto sui bombardamenti in Siria qualche mese fa. I sindacati hanno mandato un brusco caveat alla direzione: la colossale industria bellica del paese non può permettersi di mandare a casa migliaia di operai, pena il ritiro del cospicuo appoggio interno al segretario. Per ora, Corbyn procede dritto lungo la linea attorno alla quale ha costruito la propria identità politica, noncurante delle grida di panico sull’ineleggibilità poderosamente amplificate dai media. E proprio mentre il paese è nella morsa della campagna referendaria sulla permanenza nell’Ue prima del fatidico 23 giugno, tesse un dialogo con altre realtà eterodosse europee. Lunedì ha incontrato la presidente della Camera Laura Boldrini, con la quale ha parlato di un fronte comune antiausterità. Ed è da tempo in contatto con Yannis Varoufakis, che sta dando la sua consulenza alla direzione del partito in materia economica e strategica.
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