by Luca Tancredi Barone, il manifesto | 3 Febbraio 2016 9:58
Qualcosa si è finalmente mosso nel complicato puzzle istituzionale spagnolo. Il re Filippo VI ha deciso di rompere gli indugi e affidare al segretario socialista Pedro Sánchez l’incarico di formare il governo. Ieri si è chiuso il secondo giro di consultazioni del capo dello Stato dopo la rinuncia di Mariano Rajoy di dieci giorni fa. Gli ultimi a parlare col monarca sono stati i leader del Psoe e del Pp.
Alle sette di sera Rajoy è comparso in conferenza stampa per ripetere che non aveva i numeri per la grande coalizione, l’unica soluzione che potrebbe mantenere in sella il Pp. Ma fra le righe molti leggevano un malcelato desiderio di tornare alle urne. Secondo Rajoy, l’alternativa alla sua proposta è solo un governo «sperimentale» con gli indipendentisti. E lo scienziato che dovrà far funzionare quest’esperimento è Sánchez, che già in mattinata si diceva pronto a un eventuale incarico.
Ieri notte, alle nove, è stato l’ultimo dei leader politici a parlare e confermava che si sarebbe preso almeno un mese per tessere quelle che oggi appaiono come impossibili alleanze. Dopo aver criticato l’atteggiamento di Rajoy e la corruzione sempre più evidente del partito popolare (la cui cupola a Valenza al completo è finita in carcere lunedì), Sánchez, con piglio molto serio, ha chiesto di dialogare, «a destra e sinistra», «per risolvere i problemi degli spagnoli».
Nel discorso il presidente incaricato ha elencato i temi chiavi della proposta socialista: il lavoro, l’economia verde, la cultura e la scienza, un patto contro il maschilismo e la riforma delle istituzioni e infine la Catalogna – proponendo dialogo ma senza cedere neanche un millimetro sull’autodeterminazione. Per ottenere tutto questo, Sánchez ha implorato i partiti di abbandonare i veti incrociati.
Già, perché Podemos continua a fare pressioni da sinistra – addirittura in un tweet della federazione di Saragozza, cancellato dopo che era diventato virale, era girato l’organigramma di un possibile governo Psoe-Podemos-Izquierda Unida in cui, oltre alla vicepresidenza, Podemos ostentava la bellezza di quattro ministeri (su 10) come Interni, Difesa e Giustizia e, sempre secondo i viola saragozzani, Alberto Garzón sarebbe addirittura il ministro dell’Economia.
Nella sua conferenza stampa subito dopo Rajoy, Iglesias ha insistito nell’idea che si è già perso troppo tempo, ha chiesto a Sánchez di parlare di un governo «progressista e del cambio», e ha insistito che Podemos non darà mai il suo voto a un governo Psoe-Ciudadanos, e che non è possibile un governo Psoe-Podemos-Ciudadanos, dato che questi ultimi sono «il bastone» del partito popolare.
Per quanto riguarda Ciudadanos, il loro veto è a un governo Psoe-Podemos, per le stesse ragioni per cui non lo appoggerebbe il partito popolare. Albert Rivera ieri ha cercato di vendersi come l’ago della bilancia, e non ha nascosto il suo desiderio di entrare in un governo del Psoe appoggiato dal Pp – anche se ha criticato l’immobilismo di Rajoy, con cui sembra abbia parlato solo brevemente al telefono.
Qualsiasi formula, allo stato dei fatti, è comunque monca: al Pp e Ciudadanos, se tutti gli altri votano contro, mancano 12 voti per la maggioranza, e a Psoe-Podemos-Iu ne mancano invece 14. In ambo i casi saranno chiave i voti o le astensioni dei “maledetti” catalani e baschi.
E questi voti sono avvelenati soprattutto per i socialisti: nell’ultimo comitato federale di sabato del Psoe il sangue è sgorgato a fiotti. Lunedì sono state filtrate alla stampa le registrazioni dei durissimi attacchi dei capi regionali del partito contro una possibile alleanza con Podemos e con gli indipendentisti.
A legare le mani di Sánchez non sono dunque solo i veti altrui, ma anche – e soprattutto – quelli interni. Infine, il segretario socialista lo ha confermato anche ieri notte: qualsiasi accordo verrà sottoposto alla base socialista.
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