Siria, al confine con l’inferno «Così siamo fuggiti»
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BAB EL SALAM (confine turco-siriano) La novità più grave per le decine di migliaia di profughi in fuga dall’assedio di Aleppo è che adesso piove. Scrosci gelidi si alternano ad un’acquerugiola fastidiosa destinata a polverizzarsi in nebbie grigie e umide, foriere di ulteriori precipitazioni. Quattro giorni fa, quando i bombardamenti russi si erano intensificati aprendo la strada per le truppe di Bashar Assad assieme alle milizie sciite e i corpi scelti iraniani, un timido sole aveva illuminato l’esodo. Ma da venerdì pomeriggio il barometro è precipitato. «La conseguenza è che adesso dormiamo bagnati. Ci alziamo la mattina con gli abiti zuppi, che le temperature sotto i sei gradi durante il giorno non fanno asciugare. Tutti sono malati. I bambini tossiscono di continuo. Non troviamo più legna per i falò», dice per telefono il 27enne Yossef Najar da dietro il muro di fili spinati e campi minati che segna la frontiera.
Najar è uno tra la decina di profughi che ieri siamo riusciti a contattare. È accampato con la moglie e tre figli (Imran 3 anni, Achmad 5, Uissam 6) solo a un chilometro da noi. Eppure, un universo intero ci separa. Dalla nostra parte c’è la cittadina turca di Kilis, il traffico scorre normale, le abitazioni sono illuminate, i ragazzi parlano dei compiti scolastici, sui muri i manifesti pubblicitari con gli ultimi saldi, ristoranti aperti, banche funzionanti. Di là l’inferno: fame, paura, mancanza di qualsiasi assistenza, distruzioni e morte. E in mezzo la linea della frontiera, che le autorità turche continuano a tenere serrata, sebbene promettano che aiuteranno i profughi con «cibo e ripari». Un campo di tende è in via di approntamento, ma pare che accolgano meno del 10% degli oltre 70.000 siriani che si stanno assiepando, con il rischio molto probabile che il numero sia destinato a crescere. «Siamo arrivati al confine utilizzando mezzi di fortuna: auto di conoscenti, trattori, taxi scassati e tanti chilometri semplicemente a piedi», continua Najar. Ieri ha speso l’ultima ventina di dinari che gli restava in tasca. «Ho comprato pane e olive. Una bottiglia d’acqua. Ma adesso non ho più nulla». Che farete se arrivano le milizie sciite, dove andrete? «Non so. Abbiamo paura. Verranno e vorranno vendicarsi. I bambini sono sotto choc per gli ultimi bombardamenti. Piangono, non dormono, tremano. Pensavamo di averci fatto il callo. Ma sono stati terrificanti. La casa dei nostri vicini è crollata in una nuvola di polvere. A Mara, il nostro villaggio natale, le milizie sunnite cercavano di frenare gli attacchi di Isis. Siamo scappati nel villaggio di Achreitan, ma è stato anche peggio. L’aviazione russa ha colpito notte e giorno. Abbiamo dovuto scappare ancora». Ora lui dorme sotto un albero da tre giorni. I figli con la moglie sono con altre donne e bambini nei ruderi semicarbonizzati di una moschea.
Stessa storia per il 43enne Ziad Ibrahim, padre di Mohammad, 3 anni, Barah 8, Achmad 11 e Khalil 12. Due giorni fa hanno deciso di abbandonare Azaz, solo 10 chilometri dal confine. «Siamo rimasti nella nostra casa tutti questi anni di stenti. Pensavamo di poter essere risparmiati. Ma i bombardamenti russi hanno cambiato radicalmente la situazione. Le bombe cadono in modo indiscriminato su qualsiasi cosa che si muove. E adesso stanno arrivando le truppe di terra. Il grave è che sono miliziani sciiti, iracheni, soldati iraniani, Hazara afghani, Hezbollah libanesi, paramilitari siriani, soldataglia pagata per uccidere i sunniti, per rubare nelle nostre case, eliminare i giovani. Sappiamo già di massacri. E il grave è che le truppe lealiste assieme alle forze russe non colpiscono Isis, anche se lo usano come pretesto delle loro operazioni. Quasi non ci sono attacchi contro i villaggi controllati da Isis», sbotta quasi piangendo. Mazer Ibrahim, dell’organizzazione umanitaria siriana Al Risala, spiega di aver raccolto centinaia di testimonianze molto simili. «Sembra quasi che Isis e Assad siano alleati», accusa.
Sono racconti confusi, magari ingigantiti dalla paura e dalle sofferenze. Eppure sono importanti per la loro freschezza e per comprendere l’ampiezza del mutamento repentino degli equilibri strategici in Siria. L’evidenza è nelle parole di questi profughi: grazie al sostegno militare russo e l’intervento del fronte internazionale sciita guidato dall’Iran, il regime di Damasco sta avendo la meglio. Aleppo, la seconda città del Paese, è ormai circondata dai lealisti. Quattro anni fa, quando le rivolte contro il regime investirono anche la sua università e i quartieri del centro, furono in tanti a profetizzare che per Assad i giorni erano contati. «Dopo Aleppo arriva Damasco», cantavano nelle piazze. Oggi è vero il contrario: la sconfitta delle milizie sunnite ribelli arroccate nei quartieri del centro e orientali sarebbe una vittoria decisiva per il fronte sciita. Si spiegano così i toni intransigenti e aggressivi che arrivano dai massimi dirigenti nella capitale. «I successi riportati dalle nostre forze nelle battaglie attorno ad Aleppo ci fanno ritenere che la fine della crisi sia ormai vicina. Chiunque intenda inviare truppe sul terreno a fianco dei terroristi sappia che vedrà tornare a casa i suoi soldati in casse da morto», ha tuonato ieri mattina il ministro degli Esteri, Walid al Moualem. Un segno di forza e un monito all’Arabia Saudita, sostenitore storico del fronte sunnita, che negli ultimi giorni ha lanciato timidi segnali a Washington per cercare di coordinare un intervento sul campo capace di frenare l’offensiva sciita.
L’esodo dei profughi traccia le tappe dell’avanzata lealista. Fuad Darballah, 46 anni, racconta che da tre giorni è impossibile scappare da Aleppo. Sulla mappa indica i villaggi sunniti caduti: Ratian, Haretian, Baianun, Anadan, Kafr Naia, Kafr Nase, Minnagh, Miskhan, Haian. A seguirlo salta subito all’occhio l’ampiezza dell’accerchiamento. «I profughi che raggiungono Bab el Salam arrivano ormai solo dai villaggi a nord di Aleppo. E sempre più spesso hanno dovuto percorrere decine di chilometri a piedi per le campagne. Le strade sono tutte chiuse, prese di mira dai jet russi», dice.
Sono quasi le otto di sera quando lasciamo la zona semideserta del confine. La polizia turca vigila attenta. In quel momento scorgiamo tre giovani uomini che escono dalla guardiola della dogana. Sono paramedici siriani con il lasciapassare speciale in tasca. «Non potete neppure immaginare la potenza e l’intensità dei bombardamenti russi», esclama il 31enne Youssef al Alu. «Sui villaggi cadono decine di ordigni al minuto. Nessuno potrebbe resistere. Sono tre anni che lavoriamo nella regione. Ma è diventata un pianeta diverso. La Siria di una volta non esiste più ».
Lorenzo Cremonesi
Najar è uno tra la decina di profughi che ieri siamo riusciti a contattare. È accampato con la moglie e tre figli (Imran 3 anni, Achmad 5, Uissam 6) solo a un chilometro da noi. Eppure, un universo intero ci separa. Dalla nostra parte c’è la cittadina turca di Kilis, il traffico scorre normale, le abitazioni sono illuminate, i ragazzi parlano dei compiti scolastici, sui muri i manifesti pubblicitari con gli ultimi saldi, ristoranti aperti, banche funzionanti. Di là l’inferno: fame, paura, mancanza di qualsiasi assistenza, distruzioni e morte. E in mezzo la linea della frontiera, che le autorità turche continuano a tenere serrata, sebbene promettano che aiuteranno i profughi con «cibo e ripari». Un campo di tende è in via di approntamento, ma pare che accolgano meno del 10% degli oltre 70.000 siriani che si stanno assiepando, con il rischio molto probabile che il numero sia destinato a crescere. «Siamo arrivati al confine utilizzando mezzi di fortuna: auto di conoscenti, trattori, taxi scassati e tanti chilometri semplicemente a piedi», continua Najar. Ieri ha speso l’ultima ventina di dinari che gli restava in tasca. «Ho comprato pane e olive. Una bottiglia d’acqua. Ma adesso non ho più nulla». Che farete se arrivano le milizie sciite, dove andrete? «Non so. Abbiamo paura. Verranno e vorranno vendicarsi. I bambini sono sotto choc per gli ultimi bombardamenti. Piangono, non dormono, tremano. Pensavamo di averci fatto il callo. Ma sono stati terrificanti. La casa dei nostri vicini è crollata in una nuvola di polvere. A Mara, il nostro villaggio natale, le milizie sunnite cercavano di frenare gli attacchi di Isis. Siamo scappati nel villaggio di Achreitan, ma è stato anche peggio. L’aviazione russa ha colpito notte e giorno. Abbiamo dovuto scappare ancora». Ora lui dorme sotto un albero da tre giorni. I figli con la moglie sono con altre donne e bambini nei ruderi semicarbonizzati di una moschea.
Stessa storia per il 43enne Ziad Ibrahim, padre di Mohammad, 3 anni, Barah 8, Achmad 11 e Khalil 12. Due giorni fa hanno deciso di abbandonare Azaz, solo 10 chilometri dal confine. «Siamo rimasti nella nostra casa tutti questi anni di stenti. Pensavamo di poter essere risparmiati. Ma i bombardamenti russi hanno cambiato radicalmente la situazione. Le bombe cadono in modo indiscriminato su qualsiasi cosa che si muove. E adesso stanno arrivando le truppe di terra. Il grave è che sono miliziani sciiti, iracheni, soldati iraniani, Hazara afghani, Hezbollah libanesi, paramilitari siriani, soldataglia pagata per uccidere i sunniti, per rubare nelle nostre case, eliminare i giovani. Sappiamo già di massacri. E il grave è che le truppe lealiste assieme alle forze russe non colpiscono Isis, anche se lo usano come pretesto delle loro operazioni. Quasi non ci sono attacchi contro i villaggi controllati da Isis», sbotta quasi piangendo. Mazer Ibrahim, dell’organizzazione umanitaria siriana Al Risala, spiega di aver raccolto centinaia di testimonianze molto simili. «Sembra quasi che Isis e Assad siano alleati», accusa.
Sono racconti confusi, magari ingigantiti dalla paura e dalle sofferenze. Eppure sono importanti per la loro freschezza e per comprendere l’ampiezza del mutamento repentino degli equilibri strategici in Siria. L’evidenza è nelle parole di questi profughi: grazie al sostegno militare russo e l’intervento del fronte internazionale sciita guidato dall’Iran, il regime di Damasco sta avendo la meglio. Aleppo, la seconda città del Paese, è ormai circondata dai lealisti. Quattro anni fa, quando le rivolte contro il regime investirono anche la sua università e i quartieri del centro, furono in tanti a profetizzare che per Assad i giorni erano contati. «Dopo Aleppo arriva Damasco», cantavano nelle piazze. Oggi è vero il contrario: la sconfitta delle milizie sunnite ribelli arroccate nei quartieri del centro e orientali sarebbe una vittoria decisiva per il fronte sciita. Si spiegano così i toni intransigenti e aggressivi che arrivano dai massimi dirigenti nella capitale. «I successi riportati dalle nostre forze nelle battaglie attorno ad Aleppo ci fanno ritenere che la fine della crisi sia ormai vicina. Chiunque intenda inviare truppe sul terreno a fianco dei terroristi sappia che vedrà tornare a casa i suoi soldati in casse da morto», ha tuonato ieri mattina il ministro degli Esteri, Walid al Moualem. Un segno di forza e un monito all’Arabia Saudita, sostenitore storico del fronte sunnita, che negli ultimi giorni ha lanciato timidi segnali a Washington per cercare di coordinare un intervento sul campo capace di frenare l’offensiva sciita.
L’esodo dei profughi traccia le tappe dell’avanzata lealista. Fuad Darballah, 46 anni, racconta che da tre giorni è impossibile scappare da Aleppo. Sulla mappa indica i villaggi sunniti caduti: Ratian, Haretian, Baianun, Anadan, Kafr Naia, Kafr Nase, Minnagh, Miskhan, Haian. A seguirlo salta subito all’occhio l’ampiezza dell’accerchiamento. «I profughi che raggiungono Bab el Salam arrivano ormai solo dai villaggi a nord di Aleppo. E sempre più spesso hanno dovuto percorrere decine di chilometri a piedi per le campagne. Le strade sono tutte chiuse, prese di mira dai jet russi», dice.
Sono quasi le otto di sera quando lasciamo la zona semideserta del confine. La polizia turca vigila attenta. In quel momento scorgiamo tre giovani uomini che escono dalla guardiola della dogana. Sono paramedici siriani con il lasciapassare speciale in tasca. «Non potete neppure immaginare la potenza e l’intensità dei bombardamenti russi», esclama il 31enne Youssef al Alu. «Sui villaggi cadono decine di ordigni al minuto. Nessuno potrebbe resistere. Sono tre anni che lavoriamo nella regione. Ma è diventata un pianeta diverso. La Siria di una volta non esiste più ».
Lorenzo Cremonesi
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