Quando imparavamo dagli animali

Quando imparavamo dagli animali

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In Europa occidentale e in Nord America il XIX secolo ha visto avviarsi un processo, portato oggi a compimento dal capitalismo delle multinazionali, che ha spezzato ogni consuetudine di mediazione tra uomo e natura. Prima di tale frattura, gli animali costituivano il primo cerchio intorno all’uomo. Ma forse perfino questa definizione suggerisce una distanza troppo grande. Essi occupavano insieme all’uomo il centro del suo universo. Tale centralità era ovviamente di natura economica e produttiva. Quali che fossero i cambiamenti nei mezzi di produzione e nell’organizzazione sociale, gli uomini dipendevano dagli animali per nutrirsi, lavorare, spostarsi, vestirsi. Tuttavia, supporre che fin dall’inizio gli animali siano entrati nell’immaginario umano sotto forma di carne o cuoio o avorio, significa proiettare sui millenni precedenti un atteggiamento tipico del XIX secolo. Da principio gli animali entrarono nell’immaginario dell’uomo come messaggeri e come promesse. La pratica di addomesticare il bestiame, per esempio, non nacque dalla semplice prospettiva di procurarsi latte e carne. Il bestiame aveva funzioni magiche, talvolta divinatorie, talvolta sacrificali. E se all’origine una determinata specie veniva scelta come magica, addomesticabile e alimentare era in funzione delle abitudini, della vicinanza e del “richiamo” dell’animale in questione. […] La relazione uomo/animale può chiarirsi meglio se paragoniamo lo sguardo di un animale a quello di un altro uomo. Fra due uomini il duplice abisso che li separa viene, per definizione, colmato dal linguaggio. Anche se l’incontro è ostile e se non vengono usate parole (perfino se i due parlano lingue diverse), l’esistenza del linguaggio consente che almeno uno dei due, se non entrambi reciprocamente, trovi conferma nell’altro. Il linguaggio permette agli uomini di tenere conto degli altri come di se stessi. (Nella conferma resa possibile dal linguaggio vengono confermate anche l’ignoranza e la paura umane. Laddove negli animali la paura è la reazione a un segnale, negli uomini è endemica).

Nessun animale conferma l’uomo, né in positivo né in negativo. L’animale può lasciarsi uccidere e mangiare, di modo che la sua energia vada a sommarsi a quella che il cacciatore già possiede. L’animale può lasciarsi addomesticare, fornendo cibo e lavoro al contadino. Ma sempre la mancanza di un linguaggio comune, il silenzio dell’animale, garantisce la sua distanza, la sua diversità, la sua esclusione dall’uomo. Proprio in virtù di questa diversità, tuttavia, la vita di un animale, che non va mai confusa con quella di un uomo, corre parallela a quest’ultima. Solo nel momento della morte le due linee parallele convergono per incrociarsi, forse, e ridiventare in seguito parallele: da qui la diffusa credenza nella trasmigrazione delle anime. Con le loro vite parallele, gli animali offrono all’uomo una compagnia diversa da quella che può essergli offerta da un altro essere umano. Diversa, perché è una compagnia offerta alla solitudine dell’uomo come specie.

Un tempo questa muta compagnia era a tal punto percepita come uno scambio alla pari, che spesso si credeva fosse l’uomo a mancare della capacità di parlare con gli animali; da qui le storie e le leggende di esseri eccezionali, come Orfeo, che riuscivano a conversare con gli animali nella loro stessa lingua.

Quali erano i segreti della somiglianza e della diversità fra l’animale e l’uomo? I segreti di cui l’uomo riconosceva l’esistenza non appena intercettava lo sguardo di un animale?

In un certo senso l’antropologia, occupandosi del passaggio da natura a cultura, è una risposta a questa domanda. Ma esiste anche una risposta generale. Tutti i segreti ponevano gli animali come intermediari tra l’uomo e le sue origini. La teoria evoluzionistica di Darwin, che pure porta impressi i marchi indelebili del XIX secolo europeo, appartiene a una tradizione vecchia quasi quanto l’uomo. Gli animali facevano da intermediari fra l’uomo e le sue origini, perché erano simili a lui e allo stesso tempo diversi. […] Il parallelismo delle loro vite simili/dissimili ha fatto sì che gli animali suscitassero alcuni dei primi interrogativi e dessero loro risposta. Il primo soggetto della pittura fu l’animale. Probabilmente il primo materiale da pittura fu il sangue animale. In precedenza, non è irragionevole supporre che la prima metafora fosse animale. […] Durante il XX secolo, il motore a combustione interna ha sostituito gli animali da traino nelle strade e nelle fabbriche. Le città, sviluppandosi a un ritmo sempre più spinto, hanno trasformato le campagne circostanti in periferie dove gli animali, selvatici o domestici, sono diventati rari. Lo sfruttamento commerciale di certe specie (bisonti, tigri, renne) ne ha causato la quasi totale estinzione. La poca fauna selvatica ancora esistente è sempre più confinata nei parchi nazionali e nelle riserve di caccia. […] Questa riduzione dell’animale, la cui storia è tanto teorica quanto economica, fa parte dello stesso processo che ha ridotto gli uomini a isolate unità di produzione e consumo. In effetti, durante questo periodo, l’atteggiamento nei confronti degli animali spesso prefigurava quello nei confronti dell’uomo. La visione meccanica della capacità lavorativa animale fu in seguito applicata a quella degli uomini. P.W. Taylor, che sviluppò il “taylorismo” studiando il rapporto tempo-moto e la gestione “scientifica” del lavoro industriale, sosteneva che il lavoro dovesse essere “così stupido” e così flemmatico da rendere «più simile, per struttura mentale, al bue che a qualsiasi altra specie». Pressoché tutte le moderne tecniche di condizionamento sociale si basano su esperimenti eseguiti sugli animali. […] L’abitudine di tenere qualche animale indipendentemente dalla sua utilità pratica, di tenere, per l’esattezza, un pet (nel XVI secolo la parola si riferiva in genere all’agnello allevato dall’uomo con allattamento artificiale), è un’innovazione moderna e, viste le dimensioni sociali raggiunte dal fenomeno, unica. Essa fa parte di quell’universale e tuttavia individuale tendenza a ritirarsi nel privato della piccola unità familiare, addobbata e arredata di souvenir del mondo esterno, che è un tratto assolutamente distintivo delle società consumistiche. […] La marginalizzazione degli animali è legata alla marginalizzazione e all’eliminazione oggi in corso della sola classe sociale che, nel corso della storia, abbia mantenuto la sua familiarità con gli animali e conservato la saggezza che a essa si accompagna: i piccoli e medi contadini.

[…] Quello sguardo fra animale e uomo, che potrebbe aver giocato un ruolo cruciale nello sviluppo della società umana e con il quale, in ogni caso, tutti gli uomini hanno convissuto fino a meno di un secolo fa, si è estinto.

© John Berger © Il Saggiatore S. r. l. Milano 2016. Traduzione di Maria Nadotti

 

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IL LIBRO

Perché guardiamo gli animali? di J. Berger, Il Saggiatore



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1 comment

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  1. Manu
    Manu 17 Febbraio, 2016, 07:41

    Chi ha scritto questo libro non ha mai guardato davvero un animale , non ha mai sentito empatia nè colto l’anima .
    Freddo distaccato utilitaristico e consumistico come la società che descrive . Per fare un paragone è come uno chef che descrive gli ingredienti senza averne mai testato il sapore rimanendo pertanto distaccato e superficialmente descrittivo . Costui non ha la minima idea di cosa sia la zoologia e l’etologia se parla di rapporto muto tra uomo e animale o di magia nel voler dar loro voce .

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