Primarie, il ciclone Trump sbaraglia i repubblicani “Partita chiusa, vincerò io”

Primarie, il ciclone Trump sbaraglia i repubblicani “Partita chiusa, vincerò io”

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IL MESSAGGIO della South Carolina al partito repubblicano: « Trump Is Real ». Con un terzo dei voti in questo round delle primarie andati al magnate immobiliare newyorchese, il verdetto è inequivocabile. “The Donald” non è di plastica, non è un bluff, non è virtuale, non è un tornado mediatico di breve durata.

Non lo ha danneggiato la polemica con papa Francesco; né l’avere elogiato Vladimir Putin e Saddam Hussein; né le ripetute contraddizioni sulla guerra in Iraq (prima era a favore poi contro) o sulle bugie di George W. Bush. È sopravvissuto a una gaffe che per altri candidati repubblicani sarebbe stata “radioattiva”, un giudizio semi-positivo sull’obbligatorietà di assicurazione medica stile Obama. Ha attraversato indenne una dichiarazione eretica sul conflitto israelo-palestinese («resterei neutrale»).

Superato brillantemente il terzo test, e alla vigilia delle primarie repubblicane in Nevada dove è ancora lui il favorito, Trump ha la maggioranza dei delegati fin qui assegnati e sconvolge ogni previsione. La sua sicumera cresce di giorno in giorno: «Vincerò il Supermartedì, poi vincerò ancora in un grosso Stato come New York, e la partita sarà chiusa ». Dà perfino la parola alla terza moglie Melania per celebrare il successo, dopo averla esibita finora come una bambola Barbie.

E gli unici altri due candidati che sembrano ancora in gara a destra — Marco Rubio e Ted Cruz — non sanno come regolarsi. Cruz ha scelto di scavalcarlo a destra, definendosi «l’unico vero conservatore», in una continua gara al rialzo per corteggiare la base più xenofoba e religiosamente integralista; ma deve difendersi da una gragnuola di insulti che Trump gli riserva. Rubio ammicca timidamente all’elettorato moderato che dovrebbe essere in libera uscita dopo l’addio di Jeb Bush, ma anche lui non osa attaccarlo in modo frontale.

Sotto shock è l’intero establishment repubblicano, in senso lato: non solo i politici di professione ma i loro padroni, quelli che staccano assegni per le campagne. Un vasto mondo che spazia dai banchieri di Wall Street ai petrolieri, da Rupert Murdoch ai fratelli Koch al magnate dei casinò Adelson. Non possono riconoscersi in un candidato che strappa gli applausi più forsennati quando attacca gli immigrati (la destra economica ha sempre voluto le frontiere aperte per una forza lavoro a buon mercato) o quando spara a zero sul commercio con la Cina. Se si eccettua l’auto- glorificazione del proprio talento imprenditoriale, la religione narcisista della ricchezza come misura dei meriti personali, non c’è nulla del Trump-pensiero che somigli ai dogmi liberisti della destra. Di colpo l’establishment apre gli occhi davanti a una realtà che aveva sottovalutato fin dal 2010, alla nascita del Tea Party: quel movimento anti-Stato e anti-tasse volse la sua furia anzitutto contro Obama; ma al secondo posto nella lista dei suoi nemici c’erano già allora i banchieri di Wall Street salvati a spese del contribuente medio-piccolo.

Trump raccoglie oggi i frutti di una insurrezione interna alla destra, che contrappone la base repubblicana ai potentati del capitalismo (oltre che ai professionisti della politica di Washington). È paradossale che sia un miliardario a cavalcare l’insurrezione della destra popolare contro la destra economica, ma Trump ci è riuscito. Sbandierando i propri miliardi come una garanzia d’indipendenza («io non ho finanziatori ») e anche di efficacia al governo. Il suo best-seller di gioventù, The Art of the Deal, un manuale di istruzioni per vincere nei negoziati d’affari, diventa l’equivalente del Principe di Machiavelli per i seguaci entusiasti. Di certo il giacimento di rabbia sembra più vasto a destra che a sinistra. Battendo Sanders in Nevada, Hillary Clinton ha dimostrato che fra i democratici c’è ancora spazio per un messaggio di riformismo pragmatico.



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