Non è una crisi, è l’economia
L’accresciuta variabilità e il forte calo delle Borse mondiali in atto da dicembre (ma le turbolenze erano iniziate nell’estate, con le novità che emergevano nell’economia cinese) tendono ad essere valutate come una «nuova crisi finanziaria» (dopo quella iniziata nel 2007–2008, protrattasi con alterne vicende fino al 2014). In realtà la crisi in corso non è «nuova»: è dall’inizio del secolo che le Borse «ballano» in modo molto accentuato. D’altra parte, la loro volatilità si inserisce nella crisi strutturale che sta attanagliando il modello di economia affermatosi nei paesi occidentali a partire dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso; cosicché anche la qualificazione di «finanziaria» è riduttiva e rischia di essere fuorviante per descrivere la crisi in atto da quasi un decennio.
Naturalmente, nelle economie di mercato capitalistiche, ancor più dopo i processi d’intensa finanziarizzazione che le hanno caratterizzate dalla metà del secolo scorso, una situazione di crisi evidenzia inevitabilmente i suoi aspetti finanziari che, peraltro, tendono a manifestarsi con modalità particolarmente appariscenti. Anche per l’estemporaneità e il folclore modernista che le caratterizza, le oscillazioni di Borsa conquistano uno spazio negli organi d’informazione superiore — ad esempio — a quella delle variazioni nei tassi d’occupazione.
In questo contesto politico-culturale, crescono le inversioni paradossali del rapporto di funzionalità che dovrebbe collegare la finanza all’economia reale. Ad esempio, è diffusa la posizione che, da un lato, valuta positivamente il contenimento dei salari in senso lato (delle retribuzioni e delle prestazioni sociali) poiché aumenterebbe la competitività (e l’apprezzamento delle Borse che condividono tale posizione); d’altro lato, teme le riduzioni dei tassi d’interesse e dei prezzi petroliferi (che spesso incidono maggiormente sui prezzi) per i possibili effetti negativi sui bilanci delle banche e sulle quotazioni di Borsa.
Quando nel 2007–2008 esplose la crisi attuale, l’attenzione si concentrò essenzialmente sui crolli delle Borse, che proseguirono fino alla primavera del 2009; l’analisi delle sue motivazioni privilegiò l’accresciuto ruolo dei debiti e della loro rischiosità (titoli «tossici», bolle finanziarie e immobiliari, ecc.). La successiva ripresa delle quotazioni, per quanto accompagnata da una elevata volatilità, fu interpretata come un recupero anche del ruolo assunto dalla finanza nei precedenti decenni e, più in generale, come un segnale positivo per la fuoriuscita dalla crisi generale.
L’aspetto della crisi che rimaneva e rimane in secondo piano sono le sue cause strutturali radicate nell’economia reale.
In estrema sintesi: il forte peggioramento della distribuzione del reddito, l’incertezza dei redditi connessa alla precarizzazione dei rapporti di lavoro, il contenimento della spesa pubblica e le deregolamentazioni dei mercati hanno reso e rendono difficile l’equilibrio tra la crescita delle potenzialità produttive e le complessive condizioni della domanda corredata di mezzi di pagamento. Nell’Unione europea, la crisi è stata aggravata dalle modalità istituzionali della sua costruzione e dall’austerità controproducente delle politiche economiche.
Arrivati all’autunno scorso, sia i sussulti delle Borse diventati sempre più vistosi e con tendenze nettamente in calo dall’inizio di quest’anno (siamo ritornati ai valori dell’estate 2013) sia le ennesime disillusioni sulle prospettive delle economie reali hanno confermato che il ricorrente ottimismo sulla fuoriuscita dalla crisi era (ed è) radicato nell’ostinata reiterazione di una visione economica e di politiche sempre più contraddette dai riscontri empirici.
Gli andamenti attuali delle Borse ripropongono equivoci interpretativi sulla crisi simili a quelle sulle sue origini. L’attenzione è per lo più concentrata sulle difficoltà — presenti e attese — dei sistemi bancari che sembrano legate essenzialmente a problematiche proprie (che pure esistono).
Tuttavia, proprio il persistere delle cause strutturali prima ricordate — che determinano lo squilibrio tra la capacità d’offerta e la domanda effettiva nell’economia reale — fa sì che i bilanci delle banche possono contare poco sui proventi derivanti dal genere di attività che pure rappresenta la loro ragion d’essere originaria, cioè l’intermediazione del risparmio, per finanziare le attività produttive e di consumo. Le banche — anche per questo motivo, ma non solo — continuano a puntare sulla compravendita di titoli finanziari (sempre meno trasparenti per composizione e grado di rischio).
D’altra parte, i loro bilanci sono già intasati da crediti scarsamente esigibili (accresciuti dalle difficoltà dell’economia reale), dai titoli «tossici» mai risanati generati dall’euforica finanziarizzazione dell’economia e da titoli pubblici che potrebbero essere degradati dal persistere della crisi e dalla mancanza di cooperazione tra le istituzioni economico-finanziarie nazionali e internazionali (tendenza che si sta pericolosamente accentuando). Si aggiunga che le banche sono spinte a risanare i loro bilanci mediante riforme tardive del settore che generano vincoli alle loro attività proprio mentre i tassi negativi le rendono più difficili.
Nel frattempo, l’azione surrogata affidata alla politica monetaria sta mostrando sempre più i suoi limiti di strumento poco efficace per stimolare la crescita. Finora le misure di quantitative easing hanno apprezzabilmente attenuato i problemi, ma temporaneamente e come può fare una droga che se non è usata in modo terapeutico e affiancata dagli strumenti più conformi allo scopo, non risolve i problemi della crescita, ma, anzi, ne crea altri.
Rimanendo gli squilibri dell’economia reale che ostacolano la crescita, il forte aumento della liquidità sta alimentando comportamenti speculativi che creano bolle destinate a scoppiare.
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