L’Onu fa i conti senza gli osti: la tregua è già morta
Staffan de Mistura ha fatto i conti senza l’oste. Il problema è che gli osti sono troppi: tutti i protagonisti della crisi siriana. Si siedono al tavolo, si accordano sulla “cessazione delle ostilità”, fanno contento l’inviato Onu per la Siria (l’unico che pare davvero interessato a porre fine al conflitto) e qualche ora dopo minacciano di allargare la guerra a tutta la regione.
È durato poco l’entusiamo, da subito freddino, per l’accordo siglato a Monaco sotto la supervisione di Stati uniti e Russia. Poche ore e i due fronti hanno promesso di darsi battaglia, se possibile con più intensità di prima. Già giovedì, poche ore prima dell’annuncio della cessazione delle ostilità, il presidente siriano Assad aveva chiarito di voler proseguire la lotta al terrorismo, dove con terrorismo intende gran parte delle attività delle opposizioni.
A ruota ha fatto seguito la dichiarazione dell’Hnc, l’Alto Comitato per i negoziato, la federazione di gruppi anti-Assad che dovrebbe partecipare al negoziato di Ginevra: il gruppo ha rimandato la decisione sull’adesione alla tregua ai miliziani sul terreno. Che hanno deciso, fanno sapere dai microfoni della Bbc, di non voler abbandonare le armi. Tra i gruppi che hanno promesso di proseguire nell’attività militari ci sono l’Esercito Libero Siriano (braccio armato della Coalizione Nazionale), Ahrar al-Sham e Faylaq al-Sham.
Lo scetticismo delle prime ore si è trasformato in un rigetto dell’accordo, perché – dicono – non è previsto l’allontanamento del presidente Assad. Come un coniglio bianco rispunta dal cilindro una precondizione che era stata accontonata, almeno nella prima fase di transizione prevista dalla risoluzione Onu di dicembre.
Sauditi e turchi sul piede di guerra
Come i figliocci sul terreno, anche chi li finanzia non freme per cessare il fuoco. Se il fronte anti-Assad, l’asse sunnita guidato dai Saud, non pare nelle condizioni politiche e militari per un’operazione di terra, ne sventola comunque la minaccia per minare alle basi il dialogo promosso dall’Onu.
Se il processo politico fallirà – ha detto ieri Adel al-Jubeir, ministro degli Esteri saudita – il presidente Assad sarà rimosso «con la forza». «Bashar al-Assad se ne andrà – ha aggiunto – Non ho dubbi. Faremo quanto possiamo per far funzionare la soluzione politica. Ma se non funzionerà, sarà a causa dell’ostinazione del regime siriano. In questo caso, è chiaro che non ci sarà altra opzione che la sua rimozione forzata».
Riyadh si sta muovendo, una preparazione concretamente simbolica: ieri il ministro degli Esteri turco Çavuso?lu ha dichiarato al quotidiano turco Yeni ?afak (molto vicino al partito Akp del presidente Erdogan) che l’Arabia Saudita invierà nella base turca di Incirlik truppe e jet da guerra e che insieme potrebbero lanciare a breve un’operazione terrestre. Non una base qualsiasi: Incirlik è la stessa che i turchi hanno messo a disposizione sia della Nato che degli Stati uniti per le operazioni aeree anti-Isis in Siria e Iraq.
Ovviamente Çavuso?lu tiene a sottolineare che l’intervento avrebbe come target lo Stato Islamico, parole palesemente smentite da al-Jubeir quando prospetta l’uso della forza per rimuovere Assad.
Così al fianco saudita subito corre la Turchia che in Siria si gioca molto, a partire dal controllo del proprio confine medirionale: al di là della frontiera il Partito di Unione Democratica (Pyd) sta ampliando le porzioni di territorio sotto il proprio controllo, ormai giunto fino al fiume Eufrate. L’avanzamento kurdo preoccupa Ankara che teme la nascita di un’entità autonoma kurda fisicamente contigua ai territori kurdi turchi e quindi in grado di “dialogare” stabilmente con i fratelli al di là della frontiera.
Per questo ieri il premier Davutoglu ha prospettato un ampliamento della campagna militare in corso contro il Pkk nel nord dell’Iraq e nel sud della Turchia: «Se il Pyd rappresenterà una minaccia per la Turchia, l’esercito lo bombarderà». Ma i raid sono già iniziati: aerei turchi hanno colpito postazioni delle Ypg nella base aerea di Menagh, nella provincia di Aleppo, dicono fonti governative turche alla Reuters. I bombardamenti sono confermati dal Pyd che su Twitter pubblica le foto dei crateri.
Damasco avanza sul terreno
Ad approfittare dello stallo è il governo siriano che, accanto alla controffensiva su Aleppo, ne potrebbe lanciare una parallela contro Raqqa, la “capitale” dello Stato Islamico. Ieri le truppe governative si sono portate a pochi km di distanza dai confini della provincia di Raqqa, facendo immaginare una prossima operazione da ovest, che si accompagnerebbe alla pressione esercitata dai kurdi da nord.
Intanto torna a parlare Mosca che ieri avvertiva del pericolo di «guerra permanente» nel caso di intervento esterno. Mentre mostra scetticismo verso l’accordo appena siglato, la Russia continua con i raid intorno Aleppo. I bombardamenti hanno scatenato le stesse dinamiche precedenti all’accordo: Washington ha accusato Mosca di colpire «le opposizioni legittime», accusa ribadita dalla Francia e rispedita al mittente dalla Russia. Le stesse dinamiche che fanno immaginare che nulla cambierà nell’immediato.
Il premier russo Medvedev parla di «nuova guerra fredda»: «Ogni giorno veniamo accusati dalla Nato di essere la peggiore delle minacce». Ribatte il segretario generale Stoltenberg: «La retorica della Russia e l’esibizione della forza nucleare sono volte a intimidire i vicini, minando la stabilità dell’Europa». Le stesse dinamiche neocoloniali per mantenere un fragile status quo che lascia la Siria agonizzante.
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