by Benedetto Vecchi, il manifesto | 5 Febbraio 2016 16:16
Miguel Benasayag è una figura intellettuale atipica per il panorama intellettuale, anche se i suoi scritti hanno conosciuto un’attenta e partecipata ricezione. Militante argentino, finito nella morsa dei militari dopo il golpe del 1976 è riuscito per un soffio a non entrare, da morto, nella lunga lista dei desaparecidos. Filosofo di formazione, psicoanalista per passione ha scelto la strada dell’esilio in Francia, dove ha iniziato una professione nei servizi sociali di assistenza psichiatrica, dove ha visto scorrere sotto i suoi occhi uomini e donne variamente sofferenti.
Da questa esperienza ha tratto materiali che hanno costituito i pilastri dei suoi libri variamente dedicati a criticare quel processo politico e sociale teso a produrre «l’uomo nuovo» del capitalismo liberista trionfante. Dal Mito dell’individuo a Elogio del conflitto, Miguel Benasayag ha tentato di definire una storia di un presente che vedeva triturate nella macchina dell’individuo proprietario le forme di vita, politiche e sociali della modernità capitalista. Un lavoro quasi archivistico condotto attraverso la filosofia di Jean-Paul Sartre, Gilles Deleuze e Baruch Spinoza, dal quale ha mutuato anche il titolo del saggio L’epoca delle passioni tristi.
Ma nella storia in tempo reale della quale i suoi libri volevano tessere la trama, Benasayag ha intuito che l’«uomo nuovo» del neoliberismo era un soggetto sofferente, fragile, pronto a rompersi in mille pezzi al minimo urto con la realtà. E questo proprio quando una nutrita schiera di neuropsichiatri, biologi, fisici dichiaravano ai quattro venti che i computer erano riusciti a potenziare le facoltà cognitive degli umani e a riuscire nel realizzare il sogno, o l’incubo, di un cervello senza organi o corpo di intralcio.
È questo il filo rosso che unisce i due volumi pubblicati a pochi giorni l’uno dall’altro. Si tratta di Il cervello aumentato l’uomo diminuito (Erickson, pp. 200, euro 16,50) e Oltre le passioni tristi (Feltrinelli, pp. 151, euro 18. Ne scrive in queste pagine Niccolò Nisivoccia[1]). La messa in evidenzia di come la quotidiana sofferenza sia l’altra faccia di una «artificializzazione del vivente» veicolata dalle macchine informatiche non sfocia mai in una deriva tecnofoba o nostalgica per un passato incontaminato dalla tecniche. Più realisticamente, le macchine digitali sono considerate come modello e riflesso di una concezione modulare delle soggettività. Detto più prosaicamente, l’animale umano viene smontato e rappresentato come un assemblaggio di organi che possono essere rimossi e sostituiti. L’unico organo esente da questa opera di assemblaggio è il cervello: le macchine, tuttavia, possono funzionare come dispositivi che potenziano le facoltà intellettuali.
L’«uomo postmoderno» – espressione che torna frequentemente in entrambi i libri – certifica così la «verità» del dualismo tra mente e corpo, dove il primo termine sovrasta e rende potenzialmente marginale, se non inutile il secondo. Poco importa se altri neuroscienziati hanno considerato tale dualismo un limite nella comprensione di come funzioni questo insieme di corpo e cervello.
L’uomo è così un organismo diminuito, tuttavia, non solo perché il cervello, e la sua appendice tecnologica artificiale, hanno il sopravvento, ma anche perché la soggettività, il suo stare al mondo sono ridotti a un insieme di dati che compongono un profilo, cioè una enumerazione di «caratteristiche» che possono essere modificate a piacimento.
Benasayag con pazienza ricostruisce la genealogia di questa concezione dell’umano, mettendone in evidenza il presunto strato empirico – la centralità della comunicazione mediata dai computer nelle società capitalistiche – al fine di evidenziare l’egemonia di una scuola delle neuroscienze, definita riduzionista, dove il cervello è rappresentato come una rete neurale che scandisce sentimenti, riflessioni, passioni, conoscenza logica-formale. E di come quella stessa «scuola» cancelli definitivamente il fatto che il singolo sia immerso in una rete, più o meno fitta, di relazioni sociali che plasticamente ne costituiscono l’habitat senza il quale non può esserci nessun animale umano, ma solo un organo destinato a perire. È questo habitat a costituire l’«aleatorio» che irrompe nella vita della mente e che viene restituito, assunto e modificato, alla rete di relazioni sociali.
Anche in questo caso l’analisi affronta le ricerche sulla «neuroplasticità», ricordando la teoria dei «compossibili» di Leibiniz; ma nella sua storia dell’«uomo modulare» entrano in campo le tesi neoliberali sulla governabilità algoritmica come fuoriuscita da una modernità che non sa gestire la complessità della realtà sociale, la trasposizione del pensiero logico-formale all’interno di una dimensione geografica-topografica dove ogni parte del cervello svolge una funzione che le macchine possono sostituire perché più efficienti.
L’«uomo modulare» è dunque pronto ad entrare in scena. È cioè una monade che entra in relazioni con altre monadi – ancora un riferimento a Leibiniz – attraverso la messa in campo di quelle caratteristiche che compongono il suo profilo. Gli echi delle contemporanee teorie neoliberali dell’individuo proprietario sono evidenti. Soltanto che tale uomo o donna soffre. È interessante il fatto che Benasayag definisca, nel suo Oltre le passioni tristi, la crisi della psicoanalisi non come crisi di una disciplina che ha tradito la sua «missione», bensì come manifestazione di una inadeguatezza nel rispondere alla richiesta di «aggiustare» un modulo che non fornisce l’adeguata performance rispetto un mondo che chiede di adeguarsi agli imperativi di efficienza.
L’uomo e la donna postmoderni devono quindi aderire pienamente agli imperativi della governabilità algoritmica, sia che si tratti del lavoro in una impresa che di relazioni affettive. Ma questa adesione produce contrasti, conflitti, che vengono violentemente relegati nella sfera dell’interiorità. E se questo non si traduce, ancora, in una messa in discussione dell’ordine neoliberale, produce «patologie psichiche» vecchie e nuove che la pratica «psi» non sempre è capace di fronteggiare.
Ma se l’insorgenza di tali patologie sembra inarrestabile, come sviluppare pratiche di resistenza che consentano la fuorisucita dall’epoca della passioni tristi è una matassa difficile da sbrogliare. Benasayag indica il primo passaggio – riconoscere di essere un animale sociale e di incamminarsi sul sentiero dei possibili. Per gli altri, occorre però abbandonare la cucina del terapeuta e avventurarsi in un mondo dove si può agire il conflitto affinché i «possibili» non siano preclusi. E così dare nuove forme al Politico.
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