La repressione del Faraone
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Non faceva neanche ridere. «Ne ho disegnate di migliori». Ma li ha fatti arrabbiare, e tanto: il vignettista Islam Gawish, 26 anni e un milione 600 mila follower su Facebook, una mattina s’è visto arrivare gli Scorpions della polizia egiziana. Proprio mentre parlava coi giornalisti d’un sito web. Proprio mentre l’Italia — era domenica scorsa — ancora chiedeva notizie del desaparecido Giulio Regeni. «Sono entrati in redazione, ci hanno ammanettati, hanno sequestrato i computer». La grave colpa d’Islam? Una vignetta che irrideva la nuova commissione governativa per i diritti umani e il suo presidente, Mortada Mansour, raffigurato vicino a uno sbirro a sua volta intento a torturare un poveraccio («picchialo pure, ma fallo con gentilezza!»). Gli Scorpions non hanno molto senso dell’umorismo: preso Islam, l’hanno messo dentro contestandogli l’uso di software tarocchi. Ma già lunedì han dovuto rilasciarlo: un po’ perché non avevano un mandato, un po’ perché i software erano a posto, un po’ perché la protesta montava e rischiava di degenerare. «Questo Stato dev’essere molto debole — ha detto il reaparecido Islam — se ha paura di uno come me».
Sicurezza nazionale, silenzio internazionale. Nel terzo anno di regno del feldmaresciallo Abdel Fattah Al Sisi, secondo Faraone del dopo Mubarak, al Cairo si sparisce per molto meno d’una vignetta. Human Rights Watch l’ha appena detto nel suo ultimo rapporto: «Gli ufficiali di polizia sono responsabili di decine di scomparsi», 160 in soli tre mesi del 2015. Due anni e mezzo dopo il golpe che rovesciò i Fratelli musulmani, sono 465 i casi provati di tortura in carcere. E in tempi di lotta all’Isis, nel diffuso rimpianto per la «democrature», non è che il mondo se ne sia accorto granché: ad Al Sisi ormai s’applica il principio che gli americani elaborarono all’epoca dei Somoza in Nicaragua — sarà uno spregiudicato, ma almeno è il nostro spregiudicato — e molto passa. Il generalissimo combatte una guerra vera: il charter russo esploso sul Sinai, fine ottobre, è già costato sei miliardi al turismo egiziano. E in fondo nulla è certo su questa morte: al Cairo c’è stata qualche mese fa la decapitazione d’un ingegnere croato, rivendicata dall’Isis, e di criminalità comune si muore spesso. Ma la coincidenza con l’anniversario rivoluzionario, i depistaggi spingono anche molti egiziani — ieri il nome Regeni era l’hashtag più popolare — a catalogare il caso fra le tante vittime della sicurezza nazionale: «La tortura in Egitto è ormai un fatto comune e ordinario — accusa Amnesty International — e s’assiste a un drammatico deterioramento nel rispetto dei diritti umani».
Diritti&delitti. Per Gamal Eid, leader d’una storica ong, «oggi in Egitto ci sono almeno 60 mila prigionieri politici». E la grande opera di Al Sisi — altro che le trivellazioni Eni nel Mediterraneo o il raddoppio del Canale o il gigantesco porto franco di Suez (dieci volte quello degli Emirati) già promesso agl’italiani — «sono le carceri: con l’ultimo decreto di gennaio ha ordinato quella enorme di Giza, ma in trenta mesi ne ha già progettate sedici». Ogni giorno, qualcuno da levar di torno. Gli ultimi: il medico Taher Moktar arrestato perché chiede di rispettare i detenuti, l’avvocato Tarek Elawady bloccato in aeroporto perché si batte per i diritti umani, il poeta Omar Hazek fermato mentre va in Olanda a ritirare un premio, la sociologa Amal Grami zittita alla Biblioteca d’Alessandria ed espulsa in Tunisia, un ricercatore egiziano della Nasa non gradito perché troppo critico… Difficile, lavorare al Cairo: se devi girare immagini, compili moduli per settimane e non è detto che basti; se provi ad andare nel Sinai, chiedi timbri che non ti daranno mai; se intervisti qualcuno sulla lista nera, compare chi chiede di te al portinaio. E non dimenticare mai un nome: Ayman Helmy, il potente capo della polizia che tutto può. Anche scrivere di sindacalisti rompiscatole, sotto pseudonimo e forse senza press card come faceva Regeni, è rischioso: «Ci sono nostri ricercatori — racconta Amy Austin Holmes, docente di sociologia all’American University del Cairo — che sono stati arrestati per le inchieste che stavano facendo». Narra una fiaba egiziana che il dio della saggezza un giorno creò la Storia e le disse: vai sulla terra e annota tutto ciò che vedi. La Storia s’imbatté in una bella donna che stava istruendo un ragazzino: quella donna era l’Egitto, quel ragazzino era il mondo. Umm ad-Dunya, chiamano ancora oggi Il Cairo: la madre del mondo. Qualche volta, matrigna cattiva.
Sicurezza nazionale, silenzio internazionale. Nel terzo anno di regno del feldmaresciallo Abdel Fattah Al Sisi, secondo Faraone del dopo Mubarak, al Cairo si sparisce per molto meno d’una vignetta. Human Rights Watch l’ha appena detto nel suo ultimo rapporto: «Gli ufficiali di polizia sono responsabili di decine di scomparsi», 160 in soli tre mesi del 2015. Due anni e mezzo dopo il golpe che rovesciò i Fratelli musulmani, sono 465 i casi provati di tortura in carcere. E in tempi di lotta all’Isis, nel diffuso rimpianto per la «democrature», non è che il mondo se ne sia accorto granché: ad Al Sisi ormai s’applica il principio che gli americani elaborarono all’epoca dei Somoza in Nicaragua — sarà uno spregiudicato, ma almeno è il nostro spregiudicato — e molto passa. Il generalissimo combatte una guerra vera: il charter russo esploso sul Sinai, fine ottobre, è già costato sei miliardi al turismo egiziano. E in fondo nulla è certo su questa morte: al Cairo c’è stata qualche mese fa la decapitazione d’un ingegnere croato, rivendicata dall’Isis, e di criminalità comune si muore spesso. Ma la coincidenza con l’anniversario rivoluzionario, i depistaggi spingono anche molti egiziani — ieri il nome Regeni era l’hashtag più popolare — a catalogare il caso fra le tante vittime della sicurezza nazionale: «La tortura in Egitto è ormai un fatto comune e ordinario — accusa Amnesty International — e s’assiste a un drammatico deterioramento nel rispetto dei diritti umani».
Diritti&delitti. Per Gamal Eid, leader d’una storica ong, «oggi in Egitto ci sono almeno 60 mila prigionieri politici». E la grande opera di Al Sisi — altro che le trivellazioni Eni nel Mediterraneo o il raddoppio del Canale o il gigantesco porto franco di Suez (dieci volte quello degli Emirati) già promesso agl’italiani — «sono le carceri: con l’ultimo decreto di gennaio ha ordinato quella enorme di Giza, ma in trenta mesi ne ha già progettate sedici». Ogni giorno, qualcuno da levar di torno. Gli ultimi: il medico Taher Moktar arrestato perché chiede di rispettare i detenuti, l’avvocato Tarek Elawady bloccato in aeroporto perché si batte per i diritti umani, il poeta Omar Hazek fermato mentre va in Olanda a ritirare un premio, la sociologa Amal Grami zittita alla Biblioteca d’Alessandria ed espulsa in Tunisia, un ricercatore egiziano della Nasa non gradito perché troppo critico… Difficile, lavorare al Cairo: se devi girare immagini, compili moduli per settimane e non è detto che basti; se provi ad andare nel Sinai, chiedi timbri che non ti daranno mai; se intervisti qualcuno sulla lista nera, compare chi chiede di te al portinaio. E non dimenticare mai un nome: Ayman Helmy, il potente capo della polizia che tutto può. Anche scrivere di sindacalisti rompiscatole, sotto pseudonimo e forse senza press card come faceva Regeni, è rischioso: «Ci sono nostri ricercatori — racconta Amy Austin Holmes, docente di sociologia all’American University del Cairo — che sono stati arrestati per le inchieste che stavano facendo». Narra una fiaba egiziana che il dio della saggezza un giorno creò la Storia e le disse: vai sulla terra e annota tutto ciò che vedi. La Storia s’imbatté in una bella donna che stava istruendo un ragazzino: quella donna era l’Egitto, quel ragazzino era il mondo. Umm ad-Dunya, chiamano ancora oggi Il Cairo: la madre del mondo. Qualche volta, matrigna cattiva.
Francesco Battistini
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