La grande fuga dalla Cina oltre confine 700 miliardi. La diga (fragile) di Pechino

La grande fuga dalla Cina oltre confine 700 miliardi. La diga (fragile) di Pechino

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Li chiamano i puffi, come quegli umanoidi blu che abitano sotto i funghi. Varcano il confine con l’equivalente di 50 mila dollari in tasca e affidano altrettanto ai fratelli, o ai genitori. Comprano casa a Londra. Firmano costose polizze assicurative a Hong Kong e le pagano con carta di credito. Gonfiano le fatture quando vendono qualcosa all’estero. In certi casi, com’è capitato a una signora l’anno scorso, vengono bloccati alla frontiera con pacchi di biglietti di banca legati alle gambe.
Non si fermano un solo istante a rifletterci su, eppure oggi sono loro la forza dominante sui mercati globali così come i migranti che arrivano dal mare lo sono per la politica in Europa. Per certi aspetti, in questi mesi contano più dei grandi banchieri centrali. Coloro che nel loro stesso Paese vengono chiamati i «puffi», sono i milioni di cinesi che nell’ultimo anno hanno spedito all’estero l’equivalente di circa 700 miliardi di dollari – pari a quasi metà del reddito di un anno dell’Italia – e non mostrano segni di voler rallentare la loro grande migrazione finanziaria. Corrono verso la porta d’uscita dalla Cina con il loro denaro. È una delle più grandi fughe di capitali della storia, e spiega in parte la fibrillazione che ha investito l’Italia e l’Europa e il gioco capovolto che l’Asia ha mostrato al mondo fin dalle prime ore di ieri.
In Cina, un tempo l’indiscussa fabbrica del mondo, ieri è emerso che le esportazioni in gennaio sono crollate di più del 10% in un anno: molto peggio del previsto, eppure proprio ieri la moneta locale ha messo a segno la rivalutazione più forte dal 2005. In Giappone, l’economia nel quarto trimestre è caduta dell’1,4% in ritmo attuale malgrado le dosi illimitate di stimolo da parte della banca centrale: anche qui il termometro dell’economia segnala dati peggiori del previsto, eppure nelle stesse ore la Borsa di Tokyo ha vissuto il rimbalzo più forte di sempre (più 7,1%).
È il mondo al rovescio di questo scorcio di secolo. Le banche centrali ormai dominano completamente le aspettative dei mercati e per questi ultimi non conta più la produzione di valore, ma di liquidità. La Borsa in Giappone non sale perché l’economia va bene, ma perché va male; gli investitori prevedono che la banca centrale di Tokyo reagirà comprando ancora più azioni attraverso gli indici di Borsa. E in Cina la moneta ieri si è rivalutata, malgrado l’erosione di competitività che porta il governo a sussidiare per esempio l’export di acciaio a danno dei concorrenti europei, proprio perché Pechino cerca di sopprimere le dinamiche del mercato.
È da almeno un anno che l’economia cinese urla al governo e al resto del mondo ha bisogno di una svalutazione per riequilibrarsi. Lo fa attraverso di loro, i puffi: i piccoli cinesi che hanno perso fiducia nel loro sistema o nella loro moneta, un po’ come ne hanno persa nei propri Paesi i migranti che oggi approdano sulle coste d’Europa. Questi cinesi oggi cercano un porto sicuro all’estero per il loro denaro. Vogliono sfuggire ai rendimenti da confisca delle banche pubbliche di Pechino o di Shanghai, fiaccate dai crediti inesigibili verso imprese che dal 2008 hanno accumulato debiti pari a diecimila miliardi di dollari. Vogliono evitare che i loro risparmi rimangano intrappolati in Cina quando il Paese svaluterà, così avvicinando quel giorno. Vogliono evitare tasse per metà del reddito d’impresa o l’arbitrio dei tribunali e del partito.
Proprio perché questa è la realtà, ieri il regime ha voluto dimostrare che non ne ha perso il controllo. A sorpresa ha fissato un tasso di cambio più forte per lo yuan, e deve aver speso molti miliardi in poche ore vendendo dollari e comprando la propria moneta per mostrarne la forza. Lo fa anche per rassicurare l’Occidente, i cui mercati finanziari oggi non sembrano in grado di sostenere l’onda d’urto dalla svalutazione della seconda economia del mondo. Il terremoto di Borsa di gennaio si spiega anche così, con i timori innescati dalla scivolata dello yuan nelle scorse settimane (meno 2,8%). Da ieri è stata eretta una diga, ma non è chiaro fino a quando terrà.
Lo yuan scambiato fuori dai confini vale già meno che in Cina, e la sua difesa costa a Pechino almeno cento miliardi di dollari al mese. Non è lontano il giorno in cui le riserve arriveranno a una soglia di guardia, dopodiché la banca centrale dovrà arrendersi. I puffi continueranno a far fuggire i loro soldi all’estero fino a quando l’avranno travolta. La più grande forza del mercato oggi sono loro.
Federico Fubini


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