La Bolivia abbandona Evo Morales
Il presidente Morales sconfitto nelle città, ma scandali e corruzione gli hanno fatto perdere consensi anche tra gli indios
L’ultima speranza di Evo sono le comunità disperse degli altipiani boliviani e il voto dei residenti all’estero, quasi 300mila, soprattutto in Argentina e in Cile. Ma comunque vada a finire, quando il tribunale elettorale avrà conteggiato tutti i voti, la metà del paese avrà detto “no” nel referendum che proponeva una modifica della Costituzione che avrebbe consentito a Morales di correre per un quarto mandato presidenziale fra tre anni, alla fine del 2019. Evo Morales ha già vinto in Bolivia tre elezioni: nel dicembre 2005 con il 53,4%; nel dicembre del 2009 con il 64,2%; e l’ultima, poco più di un anno fa, nell’ottobre del 2014 con il 61,3%. Abituato così, anche se alla fine dovesse riuscire a vincere per un pugno di voti sarebbe comunque una sconfitta. Nella serata di ieri, con il 76% delle urne scrutinate, il “no” era al 55,4 e il “si” al 44,6. Mentre per l’ultima proiezione “Ipsos” il risultato finale sarebbe stato a favore del “no” alla rielezione di Evo: 52 a 48.
Morales ha perso in tutta l’area della cosiddetta “mezzaluna”, le pianure, industriali e agricole, e nelle grandi città, come Santa Cruz. Mentre ha vinto sulle Ande, da La Paz a Cochabamba, dove c’è il nucleo duro dei coltivatori di foglia di coca, i cocaleros di cui fu leader sindacale negli anni Novanta del secolo scorso. È come se si fosse ritirato nei suoi fortini storici, tra gli indios aymara, perdendo l’egemonia che nell’ultimo decennio aveva conquistato anche tra la popolazione ispanica di origine europea molto più diffusa nelle pianure. Ma anche sulle Ande ha vinto per pochi voti come se una parte sempre più importante dei cosiddetti “nativi” — la Bolivia è l’unico paese latinoamericano con una larga maggioranza di indios e meticci — gli avesse voltato le spalle respingendo il suo desiderio di farsi eterno.
Le ragioni della probabile sconfitta nel plebiscito le aveva intuite lo stesso presidente in una intervista concessa a El País e al Financial Times alla vigilia del voto. Come in quasi tutti gli altri paesi dell’America Latina, dopo un decennio di crescita, spinto dagli alti prezzi delle materie prime — la Bolivia esporta soprattutto gas, ma anche petrolio e minerali, e prodotti agricoli come la quinoa — è arrivata la crisi. E mentre il bilancio statale non è più in grado di sostenere né la politica dei sussidi a favore dei ceti più poveri, né i grandi investimenti per le infrastrutture, è molto fragile la riconversione dell’economia in aeree diverse dalla semplice produzione di materie prime. Poi è scoppiata la corruzione. «Nel mio partito — ha detto sconsolato Evo al País — tutti vogliono essere almeno sindaci, poi finisce che se non stanno già in carcere sono indagati. È ovvio che il problema della corruzione ha ridotto l’appoggio degli elettori». Uno scandalo — per Morales è la “guerra sporca” dell’opposizione — ha colpito anche lui quando, tre settimane fa, si è saputo che una sua ex amante aveva l’incarico di amministratore delegato per la Bolivia in una multinazionale cinese che ha ottenuto sostanziosi appalti dallo Stato.
Mentre attende il verdetto finale, il primo presidente di origine indigena della Bolivia, spiega che ha convocato il criticato plebiscito perché tutti nel suo partito — il Mas, movimento per il socialismo — gli dicevano che se avesse lasciato la presidenza nel 2019 «la rivoluzione sarebbe finita, che tornavano al governo i neoliberali, gli amici degli americani». Ma che se perderà, quando terminerà il suo terzo mandato, tornerà nel suo “cato”, la piccola fattoria, un terzo di ettaro, nel Chapare, tra i cocaleros.
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