In Iran la battaglia del cambiamento le riforme di Rouhani al test delle urne
Iran. Il progetto di apertura del presidente è in salita e contrastato dai conservatori. Su 3mila candidati moderati, il Consiglio dei guardiani ne ha ammessi solo 30
NELL’ANOMALO e per molti versi bizzarro sistema politico della Repubblica Islamica dell’Iran le elezioni hanno una reale valenza politica, in quanto servono a misurare l’esistente rapporto di forze non certo fra regime e una potenziale opposizione — cui viene istituzionalmente negato ogni diritto di rappresentanza — ma fra le diverse componenti del regime, il “nezam”. Le elezioni di domani rivestono una particolare importanza perché saranno cruciali nel determinare le sorti del progetto politico del Presidente Rouhani, un progetto di cambiamento e apertura che, come ha dimostrato nel 2013 la sua sorprendente elezione al primo turno, è riuscito a raccogliere l’adesione della maggioranza della popolazione.
Ma è anche vero che l’accordo sulla questione nucleare è stato salutato in modo entusiasta nella speranza che potesse trattarsi di un primo, decisivo passo cui però avrebbero dovuto far seguito cambiamenti sostanziali sul piano interno, in primo luogo l’economia. È questa speranza che comincia ad essere intaccata da una certa delusione per il ritardo nei miglioramenti promessi e da un crescente pessimismo sulle prospettive di cambiamento anche in termini di libertà individuali.
Le elezioni di domani dimostreranno, anche sulla base del tasso di partecipazione al voto, fino a che punto delusione e pessimismo hanno diminuito la popolarità del Presidente, ma soprattutto permetteranno di misurare l’equilibrio non solo fra correnti politiche ma, indirettamente, anche fra le principali componenti del sistema (Leader Supremo, Presidente, Consiglio dei guardiani).
Il sistema politico iraniano dimostra che per falsare i risultati elettorali non è necessario fare scomparire i voti indesiderati e inventarne altri. In Iran il regime, che ci tiene particolarmente a sbandierare la propria legittimazione democratica, preferisce interferire prima delle elezioni attraversi il filtro delle candidature affidato al Consiglio dei guardiani. È sempre avvenuto, ma questa volta in modo più pesante e più sfacciatamente orientato a impedire l’inclusione nelle liste elettorali di esponenti di note idee riformiste. Se è stato approvato il 42 percento degli aspiranti candidati, per quanto riguarda i candidati riformisti il tasso di approvazione è stato dell’1 per cento, il che significa che gli elettori potranno votare soltanto per 30 dei 3.000 candidati riformisti che si erano presentati. Non solo, ma il Consiglio dei guardiani ha anche cancellato dalle liste candidati centristi e persino conservatori moderati di cui è noto l’appoggio al Presidente Rouhani. Una manovra analogamente messa in atto in relazione alle elezioni, anch’esse previste per domani, dell’Assemblea degli esperti, l’organismo clericale chiamato ad eleggere il Leader Supremo. Non c’è da meravigliarsi che Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, un tempo bestia nera dei riformisti ma attualmente sostenitore di Rouhani, abbia reagito alla clamorosa cancellazione dalle liste del nipote di Khomeini, Hassan, anche lui vicino al progetto politico di Rouhani, chiedendo polemicamente al Consiglio dei guardiani: «Ma chi vi autorizza a fare questo, chi vi ha dato il diritto di giudicare?».
L’esclusione di Hassan Khomeini è interessante perché rivela che i conservatori più radicali (rivoluzionari di nome, reazionari di fatto) intendono certamente mantenere l’esclusione dal gioco politico dei riformisti — un risultato peraltro già da tempo ottenuto, se si pensa che l’ex presidente Khatami non solo non può partecipare a manifestazioni politiche, ma non può né essere citato né comparire nemmeno in fotografia. Tuttavia il loro obiettivo politico principale è oggi mutato, nel senso che hanno ormai identificato come pericolo principale la coalizione che appoggia il Presidente Rouhani. Hanno ragione, nel senso che i riformisti sembrano aver dato per scontata e irreversibile, almeno a breve, l’esclusione della possibilità di esercitare un ruolo protagonista nella vita politica del Paese, e — come dimostra il loro sostegno al centrista Rouhani — puntano oggi a evitare, confluendo in un più vasto schieramento, che il cammino iniziato con le elezioni del 2013 venga non solo bloccato, ma reso reversibile da quelle correnti estremiste che non hanno un sostegno rilevante nel Paese, ma che mantengono una fortissima influenza in alcune istituzioni centrali del regime. Non si tratta tanto del clero sciita, politicamente tutt’altro che omogeneo (anche per questo la definizione dell’Iran come “teocrazia” appare oggi riduttiva), ma piuttosto di quello che si può definire lo “Stato profondo”: un livello opaco in cui il potere si esercita fuori dalle regole, con un uso della forza sempre minacciato anche se non sempre messo in atto.
È qui che, oltre che con il gioco pesante che punta ad impedire che le maggioranze reali del Paese si traducano in risultati elettorali, il governo di Rouhani si trova a dover fare i conti con una fortissima opposizione che opera con strategie e mezzi che non hanno nulla a che vedere col discorso sul consenso e la democrazia. Qui emerge in particolare il ruolo dei Pasdaran, i Guardiani della rivoluzione, in origine una milizia rivoluzionaria ma oggi una combinazione di Forze Armate di élite, potenza economica e strumento repressivo che opera in modo del tutto autonomo rispet- to agli organismi dipendenti dal governo e che dispone non solo di una milizia ausiliaria, i Basiji — squadristi che si scatenano nei momenti in cui serve la repressione violenta (vedi la crisi del 2009) — ma anche di un proprio servizio di intelligence che può arrestare chi vuole e dispone addirittura di una propria sezione all’interno della famigerata prigione di Evin. Non è stato certo Rouhani, e nemmeno il Ministero degli interni, a disporre l’arresto di una serie di cittadini di doppia cittadinanza iraniana e americana — uno scoperto tentativo di mettere i bastoni fra le ruote al processo di normalizzazione dei rapporti fra Teheran e Washington. E non è stato certo Rouhani a promuovere in questi giorni il demenziale rilancio, da parte di alcuni raggruppamenti ultra, della “fatwa” contro Rushdie, con il finanziamento di una rinnovata taglia sulla sua testa.
Nelle istituzioni e fuori, la battaglia del cambiamento in Iran è in salita, di risultato incerto, contrastata da nemici decisi e potenti. Eppure, così com’era ingiustificata l’euforia diffusasi subito dopo l’elezione di Rouhani, ulteriormente montata dopo l’accordo nucleare, sarebbe oggi prematuro dare per sconfitto il suo disegno politico. Oggi più che mai gli iraniani che, soprattutto nella componente giovanile, aspirano sia a più benessere che a più libertà, sembrano non avere dubbi sulla validità di un’opzione che è ad un tempo realista e prudente. Perché sanno che un “cambiamento di regime” non solo non è possibile (lo “Stato profondo” è troppo forte, troppo spietato) ma non è nemmeno auspicabile. Sembra difficile criticarli, quando vediamo quello che è accaduto in Iraq e Libia, dove la caduta del regime ha prodotto il devastante crollo dello Stato; quello che è accaduto in Egitto, dove la Primavera Araba si è trasformata in un crudo Inverno Arabo; quello che sta accadendo in Siria, dove lo scontro fra regime e anti-regime sta distruggendo un Paese e massacrando la popolazione.
In un certo senso proprio nel momento in cui i riformisti — sia per la potente reazione dei conservatori all’esperimento Khatami che per i propri errori — sono apparentemente fuori gioco, è la maggioranza del Paese ad avere adottato il progetto politico di un cambiamento graduale, un progetto che ha l’appoggio di riformatori che non sono riformisti, ma che sono convinti della necessità del cambiamento e del pericolo di un ritorno all’estremismo ideologico di Ahmadinejad. Una coalizione che infatti si presenta alle elezioni come “Alleanza dei riformisti e dei sostenitori del governo”.
Si tratta di una coalizione che sa che ben difficilmente riuscirà a trionfare in queste elezioni — parzialmente autentiche, parzialmente falsate — ma che si accontenterebbe di ridurre i danni riuscendo a impedire che siano le forze più radicalmente retrive a consolidare il proprio dominio non solo sul Parlamento ma anche sull’Assemblea degli esperti, organo che prima o poi (e forse non troppo poi) sarà chiamato alla decisione sulla successione di Khamenei, una decisione cruciale per il futuro della Repubblica Islamica.
( L’autore è diplomatico e scrittore, già Ambasciatore in Iran e India)
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