by Etienne Balibar, il manifesto | 28 Febbraio 2016 16:24
In un drammatico editoriale, il grande quotidiano francese Le Monde ha annunciato «la morte clinica dell’Europa», incapace di far fronte collettivamente alla crisi dei rifugiati. «Gli storici dateranno certamente con questa questione l’inizio della decomposizione dell’Europa». Purtroppo non c’è bisogno di attendere il giudizio degli storici. Il fatto è già in atto. E le conseguenze saranno disastrose. Non soltanto per il «progetto europeo» o per l’Unione europea come istituzione, ma per i popoli che la compongono e per ognuno di noi, come individuo e come cittadino.
Questo non perché l’Unione, di cui ci ripetono che il solo campo dove ancora agisce è «la gestione del mercato unico», sia un’oasi di solidarietà e di democrazia, anzi. Ma perché la sua disintegrazione significherà a breve ancora meno democrazia, nel senso della sovranità condivisa dei popoli, ancora meno possibilità di affrontare le sfide economiche ed ecologiche mondiali, e meno speranza di superare un giorno i nazionalismi sanguinosi, da cui, almeno in teoria, avrebbe dovuto difenderci.
In questo quadro sinistro, che è possibile condividere (e che io condivido) mi sembra tuttavia che manchi un elemento chiave, assente anche in altri commenti: il contributo specifico della Francia a questo risultato. Certo, non deve venire isolato. Ma passarlo sotto silenzio è un’impostura ed equivale a una dimissione dalle mostre responsabilità. In quanto cittadino europeo e francese, non posso e non voglio accettarlo.
Alla fine della scorsa estate, di fronte alla decisione unilaterale della cancelliera Merkel di allentare le regole di Dublino per poter accogliere in Germania i rifugiati che, in centinaia di migliaia fuggono i massacri in Siria (di cui si comincia a dire che si apparentano a un genocidio, perpetrato contemporaneamente da vari belligeranti) e altri teatri di guerra mediorientali, c’erano due atteggiamenti possibili: rafforzare questa iniziativa e sostenere lo sforzo della popolazione tedesca oppure organizzarne il sabotaggio. Dopo qualche tergiversazione, il governo francese ha fatto finta di adottare la prima strada per prendere, nei fatti, la seconda.
La Francia, dopo aver alla fine accettato il piano Juncker di ripartizione dei rifugiati in Europa, già visibilmente insufficiente, ma che costituiva l’inizio di una presa in conto del problema, ha poi fatto di tutto perché questo accordo restasse lettera morta. Oggi, sui 24mila rifugiati che avrebbe dovuto accogliere, ne sono arrivati solo qualche decina. Ci viene detto che i rifugiati «non desiderano» venire in Francia. Mettiamo che sia vero, ma non ci chiediamo perché la «terra d’asilo» di una volta sia diventata così dissuasiva per coloro che mancano di tutto al mondo?
Questo abbandono da parte dell’altra grande nazione europea ha per caso l’intenzione di persuadere i tedeschi che saranno soli a farsi carico del problema, che sono fatti loro? Avevano solo da non credersi migliori degli altri.
Sono fatti loro, anche se poi cerchiamo di metterci il naso. E in che modo! Il mese scorso, con il pretesto della necessità di coordinare le politiche di sicurezza dopo gli attentati terroristici (lungi da me dal sotto-stimare la serietà delle misure di protezione necessarie) il primo ministro Manuel Valls è andato a Monaco di Baviera e ha stigmatizzato la politica di Angela Merkel: è stato il secondo capo di governo europeo dopo Viktor Orban a recarsi sul posto per portare sostegno all’estrema destra tedesca, il cui obiettivo dichiarato è di ottenere che la cancelliera si pieghi o si dimetta. E ieri il ministro degli Interni, Bernard Cazeneuve, dopo aver avviato il processo di smantellamento della «giungla» di Calais, che getterà di nuovo sulla strada centinaia di disperati con l’applicazione dei piani concertati con l’omologo britannico, si è stupito di vedere il Belgio chiudere le frontiere. C’è quasi da pensare che Marine Le Pen governi già la Francia.
L’Europa si decompone ogni giorno di più, e noi francesi abbiamo una responsabilità in questo. Ne subiremo quindi le conseguenze su tutti i piani: l’onore, che determina una parte meno trascurabile di quanto si creda nella legittimità storica delle costruzioni politiche, ma anche la sicurezza collettiva o la protezione degli individui, che sono le condizioni di vita civile. Salvo se, sull’orlo dell’irrimediabile, la congiunzione di un movimento di opinione illuminata e di una reazione coraggiosa da parte dei governanti (o di parte di loro) avviasse una svolta positiva. Non ci credo molto, certo, dopo quello che è successo. Ma comunque enumero qui le due condizioni che mi sembrano fondamentali. La prima, è di dire finalmente chiaro e forte che Merkel ha avuto ragione e che la sua iniziativa (alla quale, anche se ora è sulle difensive, non ha ancora ufficialmente rinunciato) non deve fallire. La questione non sono le motivazioni, nelle quali continueremo ad analizzare la parte di interesse economico e quella che dipende dalla morale. Ma va riconosciuta la giustezza politica di questa decisione, la linea di demarcazione che traccia tra due concezioni dell’Europa e l’importanza delle responsabilità che ne derivano per quello che ci riguarda tutti. Poi, è certo che Merkel paga l’isolamento nell’opinione pubblica europea per gli anni di «politica di potenza» e d’imposizione dell’austerità in Europa, ma il punto centrale non è questo – e del resto non abbiamo nulla da rimproverarle su questo fronte, visto che l’abbiamo seguita quando, invece, avremmo dovuto resisterle. Il presidente francese dovrebbe andare a Berlino, questa volta per una buona causa: sottolineare il momento storico che attraversiamo e fare appello, con la Germania, alle altre nazioni europee a farvi fronte per il loro interesse e il loro avvenire.
La seconda condizione, è rifiutare immediatamente e attivamente l’isolamento della Grecia dove sbarca la maggior parte dei rifugiati – vale a dire la sua esclusione dal sistema delle nazioni europee, che i diktat politico-finanziari della troika non erano riusciti ad ottenere e che il blocco delle frontiere, dall’Ungheria all’Austria fino alla Macedonia e all’Albania, sta realizzando nei fatti, trasformando giorno dopo giorno il paese intero in un campo di ritenzione a cielo aperto, nel quale avranno luogo in nostro nome e sotto la nostra responsabilità violenze di ogni tipo, che non sarà più tempo di deplorare quando saranno diventate incontrollabili.
A questo riguardo, non è più sufficiente fare ipocritamente la lezione ai vicini balcanici e ai greci stessi o di andare a supplicare i turchi sempre più attivamente impegnati nella guerra in Medio Oriente, promettendo loro un po’ più soldi, o di incaricare la Nato di fare una guerriglia marittima contro i passeurs. Sono necessarie delle misure d’emergenza e di grande portata, come in altri momenti di catastrofi collettive. La più evidente consisterebbe nel trasferire per via aerea o per nave i rifugiati che sono già stati recensiti e coloro che lo saranno nei paesi del nord – tra cui la Francia – che hanno i mezzi per accoglierli, mobilitando tutti i mezzi, civili o militari, che abbiamo a disposizione. Sto sognado? No, apro una discussione, perché il peggio non si realizzi. Il peggio sono le dimissioni, l’accecamento, il poujadismo storico, anche quando prende l’apparenza del realismo. Discutiamone, vi prego, ma non aspettiamo troppo, perché il conto a ritroso è già cominciato.
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