Destinazione paradisi (fiscali)
NEW YORK Se si guardano gli accordi internazionali, i paradisi fiscali dovrebbero di fatto scomparire alla fine del 2018. I 38 Stati inseriti nelle liste nere o «grigie» compilate dall’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, si sono impegnati a scambiarsi informazioni di interesse fiscale, a cominciare dai movimenti bancari, entro due anni. Per ora resistono solo l’isola di Tonga, a nord della Nuova Zelanda, le Maldive, a sud dell’India e le Barbados, al largo del Venezuela.
Se, invece, si scorrono le stime delle risorse finanziarie imboscate per decenni nei diversi Continenti, c’è da dubitare che quelle scadenze saranno davvero rispettate. Secondo una recente ricostruzione del quotidiano «Le Monde», in Europa sfuggono alla tassazione circa 2.600 miliardi di dollari, in Asia 1.300, negli Stati Uniti 1.200, nei Paesi del Golfo 800, in America Latina 700, in Africa 500, in Canada 300, in Russia 200. Totale: 7.600 miliardi: il triplo della ricchezza prodotta ogni anno dall’Italia. Il giornalista britannico Nicholas Shaxons, uno dei maggiori esperti in materia di paradisi fiscali, nel suo ultimo libro The Havens: annual report , realizzato insieme con i fotoreporter Paolo Woods e Gabriele Galimberti, sostiene che le risorse occultate siano pari a 32 mila miliardi di dollari: 13 volte il prodotto interno lordo del Regno Unito.
Sono dimensioni imponenti, dati strutturali dell’assetto economico globale. Negli ultimi anni in Europa si è discusso a lungo del caso della Svizzera o del Lussemburgo, Paesi bunker che, secondo gli accordi, dovrebbero diventare sempre più trasparenti. Sarà più difficile, però, convincere Stati come Panama a rispettare in modo sostanziale la parola data. Qui i governi hanno applicato un’unica scelta di politica economica: attirare capitali, garantendo imposte irrisorie e, soprattutto, l’assoluto anonimato. In breve sono arrivati i proventi delle grandi multinazionali e, in modo copioso, i guadagni realizzati con il traffico di droga dai clan colombiani. Tutti questi soldi sono stati investiti nella costruzione di grattacieli tanto pretenziosi quanto inutili. Nessuno a Panama ha i soldi per andarci a vivere e la notte restano desolatamente spenti, come documentano le foto di Paolo Woods e Gabriele Galimberti: monumenti alla distorsione di risorse che spesso si accom-pagna all’evasione delle tasse e al riciclaggio del denaro criminale. Nel frattempo le grandi imprese e i grandi capitali continuano il loro particolare giro del mondo. Google, per esempio, scrive Shaxson, ha spostato l’80% dei suoi profitti mondiali nelle Bermuda, dimezzando l’aliquota fiscale. Ma nella mappa dei paradisi non ci sono solo Stati pirata oppure esotici atolli. Anche nella più grande economia del mondo, gli Usa, il «tax planning», elegante sinonimo di elusione fiscale, ormai è parte integrante delle strategie aziendali, nonché delle abitudini di molti contribuenti. Il caso scuola è il Delaware. Il piccolo Stato della Costa Est ha 935 mila abitanti, ma ospita la sede legale di 1 milione e 100 mila società. Le imprese più grandi, le 500 multinazionali nell’elenco di «Fortune», hanno dislocato 19 mila filiali da queste parti, quando ne hanno installate solo 1.540 in Texas e 1.160 in California, gli Stati più importanti d’America. La legislazione del Delaware è disseminata di «loophole», buchi neri normativi dove scompaiono imponibili, proprietà immobiliari, diritti intellettuali tassati con implacabile regolarità appena superato il confine. Risparmi privati, perdite pubbliche: in dieci anni l’erario degli altri Stati ci ha rimesso 9 miliardi di dollari.
Giuseppe Sarcina
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