Democratici a pezzi sul ddl Cirinnà, governare val bene una messa
ROMA Sono appena le 9.30 del mattino quando il capogruppo Pd Zanda, in apertura di seduta, prende la parola per chiedere tempo: «Serve un lavoro di riflessione per riannodare fili politici». E’ presto, ma nelle stanze del Senato lo stato maggiore del gruppo dem è già al lavoro da ore alla ricerca di una via d’uscita. La sconsolata richiesta di rinvio rivela che non è stata trovata.
Dopo il ko del voltafaccia a cinque stelle di martedì sera la notte non ha reso le cose più facili. Le ha complicate. Ora Alfano sente di avere la vittoria in pugno e non si accontenta più della stepchild. Quando, prima che si alzi il sipario sui lavori dell’aula, Maria Elena Boschi sonda il ministro degli Interni per capire se i centristi accetterebbero una pace basata sulla messa ai voti per parti separate dell’emendamento Marcucci, cioè sul lasciare all’aula la decisione sulla stepchild, il leader Ncd risponde che l’asticella si è alzata. Lo stralcio delle adozioni, o la disponibilità a farle abbattere in aula, non basta.
Prima in capigruppo, a maggioranza, poi col voto dell’assemblea, il Pd ottiene il suo rinvio sino a mercoledì prossimo, non senza passare sotto le forche caudine di interventi durissimi da parte di chi, al momento, è vincitore. Il capogruppo leghista Centinaio rinfaccia al collega del Pd l’arroganza con cui aveva minacciato di fare «piazza pulita» con il canguro. Calderoli smentisce di aver organizzato una resistenza alla legge ostruzionistica e lo dimostra.
In effetti non è l’ostruzionismo il problema. E’ una fronda interna al Pd che non accenna a piegarsi e che non è composta dalla minoranza ma da renziani della prima ora, molto meno facili da domare. Ed è un M5S che, interessato a colpire Renzi molto più che a difendere o attaccare la legge, ha giocato bene le proprie carte, lasciando credere a Cirinnà e a Lumia, i due senatori dem in cabina di regia, di essere pronto a votare l’emendamento Marcucci. Salvo poi sfilarsi all’ultimo momento.
Renzi e Boschi avevano subodorato il tranello. Nei giorni scorsi avevano chiesto più volte a Cirinnà e a Lumia se davvero ci si poteva fidare dei pentastellati, ricevendo puntuali quanto infondate rassicurazioni. E’ questo il colpo che la senatrice prima firmataria della legge accusa di più e che la spinge ad ammettere: «Mi sono fidata e pagherò l’errore. Se la legge sarà stravolta lascerò la politica». Qualche ora dopo ci ripensa: «Non lascio, ma neppure metterò il mio nome su una legge porcata».
La tenaglia composta dai centristi della maggioranza e dai ribelli del Pd è già pronta. A metà pomeriggio Alfano detta il suo diktat: «Time out sulle unioni civili. Speriamo che adesso il Pd capisca che occorre ripartire dalla maggioranza di governo». I catto-dem concordano: l’obiettivo adesso è portare a casa tutto ciò che rischia di assimilare le unioni civili al matrimonio. La sinistra del Pd fa muro. Ventuno senatori firmano una lettera rifiutando «mediazioni al ribasso». Marcucci, papà del canguro, giura che «non la daremo vinta a Casaleggio».
Renzi, però, in costante contatto con la sua truppa sin dalla notte, non si sbilancia: «Bisogna cambiare strategia. E’ chiaro che la legge va approvata ma che da soli non possiamo farlo». Che fare, al momento, non lo sa neppure lui. L’unico ordine certo che arriva dal premier all’ufficio di presidenza dei suoi senatori è «niente stralcio». Dato che per Alfano e i catto-dem è ormai insufficiente, per il momento parlarne sarebbe una perdita di tempo. La seconda certezza è che il voto segreto sulla stepchild dovrà esserci, e senza alcuna rete di protezione.
Già, ma cosa fare allora? Al momento la via più gettonata è quella di mettere ai voti l’emendamento Marcucci per parti separate. La sorte della stepchild sarebbe a quel punto nelle mani dell’M5S e probabilmente le adozioni verrebbero battute. La partita però non finirebbe lì perché, anche se parecchi emendamenti inclusi molti «premissivi» decadrebbero, la battaglia s’infiammerebbe di nuovo al momento di votare i passaggi contenuti nell’articolo 3 del ddl, quelli sui diritti «paramatrimoniali» delle unioni civili, che sono adesso il nuovo elemento sotto assedio.
In alternativa si potrebbe accettare il voto sull’articolato, ma in quel caso campeggerebbe la minaccia dei micidiali «premissivi» dell’opposizione e in più, con un certo numero di voti segreti inevitabile, il rischio di varare non una legge di civiltà ma un pasticcio inguardabile e contraddittorio sarebbe altissimo.
Infine il capo del governo potrebbe adoperarsi per spingere il presidente del Senato a eliminare almeno una parte dei rischi. Se Grasso dichiarasse inammissibili tutti gli emendamenti premissivi, sia il Marcucci che quelli delle opposizioni, per il ddl tutto diventerebbe più facile. Solo che a quel punto non si potrebbe più far ricorso a canguri o bestioni simili neppure in futuro, e Renzi non vuole privarsi di quell’arma.
Il premier e segretario del Pd ha una settimana per riparare a una gestione disastrosa del ddl più delicato di questa legislatura e trovare una via d’uscita dal labirinto in cui sono finite le unioni civili.
Ma tra una Boschi che si dichiara «sempre ottimista» e la capogruppo del Misto De Petris che, dopo aver impedito con la proposta del rinvio la disfatta martedì, confessa ora apertamente di essere «estremamente preoccupata» è la seconda che si avvicina di più alla verità.
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